Ilaria Rossetti

Ilaria Rossetti: narrazione, memoria e cose da salvare

Con il suo romanzo Le cose da salvare, Ilaria Rossetti è tornata sul panorama letterario italiano, e lo ha fatto con estremo successo. Il libro è una splendida riflessione sulla memoria, sul senso delle cose e sul tempo che passa.

Soprattutto sulla precarietà della vita e su ciò che davvero vorremmo, appunto, salvare. In questa intervista a Ilaria Rossetti abbiamo quindi parlato del suo libro, dei suoi personaggi, e del rapporto tra tempo e memoria, tra scelta e non scelta, tra letteratura e realtà.

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Le cose da salvare. Una storia reale

Ilaria Rossetti, il tuo ultimo romanzo ha vinto la quarta edizione del Premio Neri Pozza ed è stato nominato per il Premio Strega. Volevo intanto chiederti: come si vive l’esperienza di vedere la propria storia così amata e ben giudicata da pubblico e critica?

È stato sicuramente importantissimo ricevere un riscontro simile, anche perché “mancavo” dalla narrativa da diversi anni e questo romanzo rappresenta, per me, un ritorno stabile. Il Premio Neri Pozza ha permesso a Le cose da salvare di venire accolto da una casa editrice importante e che stimo, Neri Pozza, e la candidatura allo Strega da parte di Wanda Marasco mi ha fatto molto piacere, perché so che era in giuria al Neri Pozza e ha apprezzato molto il libro.

Le cose da salvareLe cose da salvare parte da un evento tragico per poi sviscerare in realtà il lato umano di ognuno di noi. Come nasce questa storia e quanto ti ha colpito personalmente il crollo del Ponte?

Sì, il crollo del Ponte è un richiamo alla vicenda del Morandi di Genova ma in realtà funziona da immagine archetipica: quali sono le nostre reazioni quando crolla una potente connessione tra noi e gli altri, tra il mondo che conoscevamo e qualcosa che deve ancora venire, tra il passato e il futuro che, attivandosi all’improvviso, diventa il nostro presente? Quando seguii la vicenda del Morandi, tra le altre cose mi colpì la scelta rapida e angosciata che dovettero compiere gli abitanti delle case sotto il ponte, mentre sfollavano senza sapere se avrebbero mai potuto fare ritorno nei loro appartamenti. Cosa mi sarei scelta io, da portare via? Quali sarebbero state le mie cose da salvare? Era una riflessione che apparentemente riguardava oggetti e aspetti materiali, ma in realtà le implicazioni sono molto più complesse: in che maniera presidiamo la memoria? E che risposta, individuale e collettiva, siamo in grado di dare a un trauma simile?

Gabriele e Petra sono i due protagonisti della vicenda. Forse entrambi si sono fermati ad un certo punto della loro vita. Cosa li accomuna o cosa li distingue?

Gabriele e Petra sono in apparenza personaggi molto lontani. Lui ha sessantasei anni, è un uomo maturo, al crollo del Ponte reagisce in maniera ostinata: restando nella sua casa, opponendosi alla salvezza immediata, apparentemente terrorizzato dal mondo esterno. Lei è una trentenne reduce da un’esperienza di lavoro a Londra, fa la giornalista, sta facendo i conti con un lutto: se Gabriele resta fermo, Petra è in costante movimento, percorre la città, affronta suo padre appena rimasto vedovo, fa il suo lavoro. Tuttavia entrambi vivono il loro passato con un forte senso di interazione e reciprocità: in tutto quello che vivono, parafrasando Alexander Von Humboldt, continuano a vedere fili invisibili che collegano ogni cosa e persona che li riguarda. La perdita, per loro, è una dimensione individuale e concerne genitori, matrimoni, oggetti, radici, identità: Gabriele vorrebbe compilare un inventario pratico ed emotivo delle sue cose da salvare e capisce che forse l’angolatura dovrebbe essere differente, e cioè guardare a quali sono le cose che dobbiamo imparare a lasciar andare. Petra arriva alla stessa conclusione: da bambina ricorda di aver creduto che tutte le cose andrebbero conservate, salvate, anche se non riprenderanno mai a funzionare. Da adulta capisce che non si può fare.

Memoria e scorrere del tempo

C’è un punto nel tuo romanzo in cui si dice che «la memoria di tutta la tragica bellezza di ciò che è passato sia più importante dell’insensatezza della Storia». Ti va di spiegarci questo concetto?

Un esergo in apertura di romanzo viene da Cristina Campo. Lei scrive di avere tantissime cose da dire, quasi direbbe da salvare, e cioè tutta la tragica bellezza di ciò che è passato in noi e vicino a noi. Qui ci sono due suggestioni potenti: la prima è che dire le cose, raccontarle, implichi il farle esistere come esperienza; la seconda è che tutta la nostra esperienza, in quanto umana, subisce il passare del tempo, e da qui la bellezza che diventa tragica, perché sappiamo che tutte le cose, dal momento che hanno inizio, implicano anche una fine. Ma noi esseri umani certifichiamo sempre la stessa risposta, a questa corrente incontrollabile: cerchiamo di trattenere e fermare il nostro tempo, di salvarlo a prescindere dai macro avvenimenti della Storia, questo appartiene alla nostra indole e siccome non possediamo macchine per tornare nel passato o spiare il futuro, lo facciamo con le parole. La narrazione può fare memoria con un’autorità impressionante.

Si dice sempre che le cose materiali non hanno poi così valore. Ma quanto sono importanti, invece, se relazionate al tempo che passa, a ciò che perdiamo?

Sono importantissime. Io mi crogiolo nel mondo degli oggetti. Ogni libro, fotografia, soprammobile viene da un luogo, da un tempo, da una persona, e soprattutto viene da una me che non esiste più. Questo mi ha sempre affascinato, perché è come riattivare una porzione di memoria di sé, di cui spesso non si ha nemmeno consapevolezza. Trattenere un oggetto a volte significa volere a portata di mano quella particolare qualità di luce, in quel posto, in quel momento, mentre si era precisamente quella persona. È raccontarsi una storia, un correlativo oggettivo montaliano.

Possiamo dire che Le cose da salvare è anche una storia di contrasti? Giovinezza/vecchiaia, rito/lutto, movimento/immobilità, scelta/non scelta?

Più che di contrasti, mi piace parlare di complessità. Gabriele, Petra, Alfio, Vanda sono portatori di indecisione, rimpianto, errori, scetticismo, e questo li accomuna a prescindere dall’età anagrafica e dalle possibilità di azione. Mi interessava non tanto opporli, quando metterli in colloquio e giocare con le loro polarità. Faccio un esempio: Gabriele di cognome fa Maestrale e paradossalmente è il personaggio che si muove meno di tutti, asserragliato nella sua casa; eppure il suo agire innesca una serie di avvenimenti chiave nella storia. È l’unico a dare una scossa etica (e filosofica) davvero diversa.

Ilaria Rossetti e le sue cose da salvare

La solitudine forse amplifica o distorce il valore delle cose. E’ il contatto con il mondo a permetterci di mettere a fuoco cosa sia davvero importante per noi?

Ilaria RossettiIl contatto col mondo implica un confronto con gli altri, a volte anche brutale. Serve per comprendere molte cose di noi, perché approfondisce il senso della realtà, mentre in effetti, come ha scritto Joyce Carol Oates, l’esperienza della solitudine e dell’immaginazione scava nel senso del mistero. Però io credo che tutti e due siano importantissimi.

Che rapporto lega secondo te letteratura e realtà?  Quanto è importante la letteratura non solo per raccontare il mondo, ma anche per spiegarlo o farci scoprire lati nuovi e nascosti?

Io amo molto un concetto espresso benissimo da Javier Cercas, e cioè che il romanzo, forse più di tutti, è il genere che protegge le domande dalle risposte. Estendendo questo alla letteratura in senso più ampio, credo sia molto giusto. Raccontare e fare poesie raramente garantisce delle risposte, ma approfondisce la ricerca, salva del mondo quello che è fondamentale trattenere e studiare, come sotto la lente di un microscopio, e quando il muro tra il mondo non scritto e il mondo scritto si rompe c’è una strada nuova da percorrere e scoprire.

Restare o fuggire? Cosa ha più valore in questa storia?

Scegliere l’una o l’altra cosa, ma dandosi il tempo per decidere. Il valore sta nel tempo, di nuovo.

Ilaria Rossetti, quali sono le tue cose da salvare?

Salverei una foto sgualcita di me a otto anni, insieme a mia sorella e mio nonno, dev’essere il 1996 o giù di lì ed è un mondo diverso: nessuno è più come in quella fotografia, eppure io mi ricordo benissimo il colore del tavolo, l’odore di quella casa, il modo di tossire che aveva mio nonno. E poi salvo l’inventario più difficile, quello delle cose che ingombrano e che non voglio più portare con me.

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diDonato Bevilacqua

Proprietario e Direttore editoriale de La Bottega di Hamlin, lettore per passione e per scelta. Dopo una Laurea in Comunicazione Multimediale e un Master in Progettazione ed Organizzazione di eventi culturali, negli ultimi anni ho collaborato con importanti società di informazione e promozione del territorio. Mi occupo di redazione, contenuti e progettazione per Enti, Associazioni ed Organizzazioni, e svolgo attività di Content Manager.