Jonathan Bazzi

Jonathan Bazzi: periferia, parole e febbre

L’esordio letterario di Jonathan Bazzi è stato potente ed impressionante. Febbre (Fandango Libri), è un romanzo che racconta la vita del protagonista nella periferia milanese. Qui si intrecciano le umanità più differenti e il suo rapporto con la malattia. Il libro è candidato al Premio Strega 2020.

Abbiamo intervistato Jonathan Bazzi per capire cosa vuol dire la vita in provincia, come è riuscito a trovare un equilibrio con il dolore e la sofferenza e cosa vuol dire vivere prima e dopo il successo.

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Jonathan Bazzi, Febbre è stato pubblicato un anno fa e di strada ne ha fatta da allora. Come ti senti, quali sono i tuoi sentimenti verso la tua opera prima e verso il pubblico dei lettori?

Sono felice che il libro abbia raggiunto persone, lettori molti diversi. Febbre era un progetto rischioso: l’HIV è un tema spesso considerato di nicchia, o superato. Respingente. Sono contento che nel libro vengano viste anche altre cose, oltre alla sieropositività. Provare a non mettere solo il virus al centro era un po’ la mia sfida. Non è semplice, ma posso ritenermi soddisfatto. Febbre è anche un libro sulla periferia, sulla violenza domestica, sul potere della parola. E per fortuna non è passato inosservato.

Febbre parla anche del virus dell’HIV. La parola virus in questo momento è incredibilmente familiare a tutti. Leggere Febbre durante la pandemia globale causata da SARS Covid-19 conferisce al testo ulteriori, imprevedibili significati. Come hai vissuto questo periodo di quarantena, qual è il tuo stato d’animo al riguardo?

L’ho vissuto saltellando, come tutti, da uno stato d’animo all’altro. All’inizio non sapevo se l’essere sieropositivo potesse costituire un fattore di rischio maggiore, poi per fortuna ho scoperto che così non è. Ho patito tanto il non poter uscire a camminare: il movimento è un mio bisogno di base. Movimento mentale, ma anche fisico. Il lockdown è stato un periodo di stagnazione, in cui il molto tempo libero ha rischiato spesso di diventare tempo morto. Siamo stati in balia delle notizie, della manipolazione emotiva dei media. Credo che questi mesi ci abbiano anche insegnato (o confermato) quanto ambivalente, contraddittorio sia il nostro rapporto con la verità. Abbiamo reagito all’inquietudine attraverso prese di posizione accese e spesso irrazionali, incanalando la paura verso obiettivi definiti, parziali. Stigmatizzando più che cercando di osservare.

Probabilmente non è corretto mettere etichette ai libri ma questo libro è anche fortemente femminista. Pur non giustificando le scelte e le parole di alcune figure femminili, ci sono punti in cui descrivi uomini che sfogano il loro odio e la loro rabbia incontrollata sulle donne. Tu stesso scopri durante il racconto che gli uomini non sono tutti così, che anche gli uomini sanno prendersi cura, anche dei maschi ci si può fidare.

Sì, una delle ragioni per cui ho scritto questo libro è proprio questa. Volevo ripercorrere la storia dei traumi della famiglia, traumi il più delle volte connotanti dalla gerarchia di genere, coi maschi ammantati di un privilegio raramente messo in discussione. E volevo farlo anche per esplorare le conseguenze che la violenza assistita può lasciare sui bambini. Il mio rapporto col mondo maschile infatti è inevitabilmente segnato, ferito, da quel tipo di dinamiche. Crescendo il quadro si amplia e si articola, ma la verità è che sulla base di un male originario oggettivo poi possono fissarsi in noi dei pregiudizi generalizzati, riflesso di quelle storture passate. Nel libro la figura dell’infettivologo mira a mettere in luce un po’ questo, e la possibilità di un passaggio, di un punto di vista più libero.

Jonathan Bazzi tra adulto e bambino

Tra le righe di Febbre emerge gradualmente il ritratto di un bambino e poi un ragazzo circondato da adulti-bambini che, come spesso accade, gli impongono i loro vissuti e i loro problemi irrisolti. Lo fanno forse senza neanche accorgersene troppo, pensano che non ci sei solo tu. Quand’è che un bambino invisibile smette di essere tale?

Da un certo punto di vista, quando capisce di essere stato un bambino invisibile e trova il modo, il canale, per raccontare la sua storia, ma da un altro forse non smetterà mai di esserlo. Si tratta di un’esperienza primitiva, fondante, che può essere integrata, accostata ad altro, certo, ma credo mai cancellata, soppressa.

In Italia, a differenza di altri paesi, non si fa a scuola una vera e propria educazione sessuale o sentimentale. Dov’è il cortocircuito tra istituzioni e cittadini, ma anche nella comunicazione tra paziente e medico, in questo senso?

Penso sia ancora forte la resistenza nell’usare gli strumenti dell’intelligenza per parlare di corpo e sessualità. Il sesso è tollerato finché resta nell’ombra: non è tanto scandaloso farlo, è scandaloso parlarne, farne oggetto di discorsi. Ed è un bel guaio, una trappola che limita la possibilità di prendersi cura di noi stessi e degli altri, lasciando che tutto avvenga un po’ come può, col risultato che ognuno si regola con gli strumenti che già di suo possiede (o non possiede).

 

Narrazione e realtà in Febbre

Quello che scrivi in Febbre è vero sempre o c’è qualche elemento di finzione? Come è stato recepito il testo da chi si ritrova citato tra le pagine? E da Rozzano/Rozzangeles?

Non sono un grande appassionato della distinzione vero/falso, fiction/non fiction. Mi interessa usare materiale autobiografico e deformarlo col mio sguardo, anzi più che di deformazione parlerei di passione per il modo specifico con cui le cose mi si manifestano. Tutti noi abbiamo versioni dei fatti reali piene di immagini, fantasie, pensieri. Versioni solo nostre, piccoli racconti o persino romanzi suscitati di continuo da luoghi, persone, oggetti. Scrivere per me significa dare visibilità a queste percezioni illegittime, che riguardano le cose reali ma che stanno tra me e le cose, che esistono spesso solo nello spazio dell’incontro.

Jonathan BazziRozzano in Febbre è molto più che un luogo o uno sfondo per la narrazione: la città assume un carattere più ampio, è quasi un personaggio a sé stante, che vive di vita propria e regole tutte sue. A partire anche da questo contrasto nord e sud, periferia e grande città, quante Rozzano esistono in giro per il nostro paese? E ti chiedo anche se secondo te una vera integrazione e inclusione dei diversi sarà mai possibile o se ci sono mondi che non si incontreranno mai, che preferiscono rimanere separati.

Esistono molte Rozzano, anche se ognuna ha il suo spirito, le sue cifre originali. Esistono periferie interne ed esterne alle grandi città, e anche all’interno di se stesse le periferie variano. Uno dei rischi con le periferie è quello di riunirle tutte in un’unica narrazione. Ma ogni periferia resta un luogo specifico, fatto di edifici specifici, in un territorio specifico. Rozzano per esempio ha le caratteristiche dure, complicate che ha, ma, allo stesso tempo, sorge in una zona bellissima, piena di grandi parchi, campi, con una natura ancora fiera, oserei dire rigogliosa. Da piccolo non ci facevo caso, ora me ne accorgo: Rozzano è un ghetto tirato su in una zona speciale, che conserva ancora molto di ciò che era prima dell’urbanizzazione.

Non so se l’integrazione avverrà mai: io ci spero. Sono contro questi progetti così uniformi e massicci di edilizia popolare, che affollano una sull’altra famiglie con storie e problemi troppo simili. Le “case per i poveri” non dovrebbero esistere: non così, non in modo così sigillato rispetto al resto del tessuto sociale.

La vita, la malattia e il romanzo

Nel libro parli anche di una fetta di gente che, in seguito alla pubblicazione di un tuo articolo a tema HIV, ti accusa di esibizionismo, megalomania, vanagloria. Che problemi hanno, a parte una malattia che si chiama ipocrisia e l’incapacità ad utilizzare la scrittura e le parole anche come cura?

In generale penso che ci sia un fraintendimento con l’egocentrismo: anche chi ti attacca lo fa per egocentrismo. Tutti siamo egocentrici. La differenza credo stia in ciò che scegliamo di fare col nostro egocentrismo. Si può essere egocentrici e allo stesso tempo dar vita a qualcosa di sensato o utile agli altri. Insomma: credo le persone possano essere distinte in egocentrici evoluti o poco evoluti.

La vita di Jonathan Bazzi dopo Febbre: dacci qualche anticipazione sui tuoi progetti letterari e non.

Sto scrivendo il prossimo libro, uscirà l’anno prossimo. Per ora non dico nulla, amo le sorprese. In ogni caso Febbre potrebbe riservare ancora qualche novità. È un maratoneta. Si è rivelato un tipo insistente.

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diMarta Lilliù

Sono nata ad Ancona nel 1985 e sono cresciuta ad Osimo. Sono laureata in Lettere (Università degli Studi di Macerata) con una tesi in Storia Moderna sulle Suppliche del XVIII sec. dell’Archivio Storico di Osimo. Sono diplomata in Pianoforte e in Clavicembalo (Conservatorio “G.Rossini” di Pesaro).
Dal 2012 abito e lavoro in Liguria, dove ho approfondito l’ambito della didattica musicale (abilitandomi all’insegnamento del Pianoforte presso il Conservatorio “N.Paganini” di Genova) e della didattica speciale, cioè rivolta al Sostegno didattico ad alunni con disabilità (Università degli Studi di Genova). Ho vissuto a Chiavari e Genova. Attualmente vivo a Sestri Levante, dove annualmente si svolgono il Riviera International Film Festival e il Festival Andersen.
Sono docente di Pianoforte a tempo indeterminato a Levanto, Monterosso e Deiva Marina.
Abbandono talvolta la Liguria per muovermi tra le Marche e Londra, città in cui ricopro ufficialmente il ruolo di...zia!