Silvia Bottani

Silvia Bottani: la bellezza negli incontri e nel destino

Silvia Bottani ha recentemente pubblicato il suo primo romanzo, Il giorno mangia la notte (SEM). Una storia bellissima, che parla di quotidianità, di metropoli, di multiculturalismo. Ma soprattutto parla di incontri e di destini che si intrecciano.

In questa intervista a Silvia Bottani abbiamo cercato di scavare dentro la sua storia e il suo linguaggio, cercando di capire un po’ di più sui suoi personaggi e sul suo modo di vedere il mondo.

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Il giorno mangia la notte. Storia di incontri e scontri

Silvia Bottani, Il giorno mangia la notte è il tuo primo romanzo. Come è nata l’idea di raccontare questa storia e perché ne hai sentito l’esigenza?

Per anni mi sono occupata di scrittura critica e giornalismo culturale ma ho evitato la narrativa, principalmente per timore di misurarmi con quelli che ritenevo essere dei maestri. Ho sempre letto in maniera compulsiva, affrontando più libri insieme, mischiando romanzi, fumetti, saggi, giornali. La parola scritta per me è una felice ossessione. Circa tre anni fa poi ho cominciato a prendere degli appunti che riguardavano delle storie di fiction e così è arrivata l’idea per Il giorno mangia la notte. Tutto è nato con la visione di Giorgio che fuma di fronte alla sala giochi, la scena che apre il romanzo. Procedo sempre facendomi guidare dalle immagini, il mio processo di scrittura è strettamente legato al visivo, probabilmente per la mia formazione e per il mio interesse per l’arte. Ho iniziato a scrivere il romanzo essenzialmente perché era una storia che mi “chiamava” e che sentivo contenere degli elementi che volevo indagare: il tema del corpo fisico nell’epoca del digitale, la rabbia come forma di affermazione sociale, l’estremismo politico nero, la metropoli come laboratorio sociale permanente, il tema dell’identità, il collasso di un mondo (economico, relazionale, lavorativo). E poi il desiderio, come forza scardinante e ineluttabile.

 Giorgio, Naima e Stefano sono tre sconosciuti uniti poi da un destino imprevedibile. Cos’altro li accomuna?

Sono tutti e tre la personificazione di uno o più caratteri della città che abitano. Giorgio è la metropoli bulimica, narcisista, che consuma senza tregua ed è vittima di autoconsunzione; una città che tenta di mantenere in vita, fuori tempo massimo, gli strascichi di un passato dorato, una stagione di edonismo che è esaurita da tempo ma da cui non riesce del tutto a emanciparsi.

Stefano è invece la città della deriva securitaria e dell’allarme sociale perenne, dei muri e dell’ordine come principio separatore. E’ la città che ha sdoganato il fascismo pop e che tra pochi nostalgici e molti immemori, si identifica in una retorica semplicista, violenta, fondata sulla prevaricazione. Naima invece raccoglie in sé ancora altri caratteri, che sono il meticciato culturale, la possibilità di autodeterminarsi sfuggendo a ruoli precostituiti, (una rivendicazione che confligge con chi invece vagheggia nuove forme di ortodossia), un modo nuovo di esperire le relazioni, segnato da una inedità fluidità sessuale ed emotiva.

Sono inoltre tre personaggi che lottano contro una deriva che minaccia costantemente di travolgerli, e sono accumunati anche da un’emozione, che è la paura: per Giorgio, il terrore di non riuscire a riconquistare un posto al sole, una dignità che ha perduto e che lo ha spinto ai margini della scala sociale; per Stefano la paura dell’altro, la fobia del caos e della contaminazione; per Naima, il timore di essere imbrigliata in una identità che non le corrisponde e, successivamente, la paura di non poter riparare l’ingiustizia subìta. Mi immagino una figura geometrica dinamica, che rischia continuamente di spezzarsi ma che in virtù di un movimento centrifugo, rimane suo malgrado unita, fino all’epilogo.

 Affronti la tematica dell’immigrazione, soprattutto quella di seconda generazione. Come ci si integra in una realtà così complessa come Milano?

Penso che ognuno trovi la propria via all’integrazione, non esistono forme date. Continuo a credere alla scuola pubblica come forma primaria di costruzione della comunità e penso che la scuola svolga un ruolo fondamentale dal punto di vista dell’integrazione. Ciò non significa non riconoscerne  i limiti o non vedere i maltrattamenti che negli anni ha subìto, che si ripercuotono sulle opportunità offerte agli studenti e sul disagio degli insegnanti. Rimane però un bene primario, collettivo, su cui bisognerebbe investire smodatamente.

Il tema dell’integrazione è certamente complesso e credo implichi movimenti che si esprimono su una scala temporale piuttosto ampia: penso che in questa prospettiva il lavoro culturale sia essenziale a coadiuvarne i processi, così come sia necessario operare per una maggiore giustizia sociale che punti a ridurre le disuguaglianze, che invece negli ultimi anni abbiamo visto aumentare in maniera esponenziale a causa di un modello economico neoliberista ormai insostenibile. Credo che queste siano due azioni fondamentali da mettere in atto per avere una società più solida, coesa e in grado di affrontare in maniera non ideologica il tema delle migrazioni, anche alla luce di un futuro prossimo in cui si prospetta l’avvento di flussi migratori sempre più imponenti, composti da profughi climatici, conseguenza della crisi ecologica globale.

 

Giovani, politica e dolore

Parliamo di giovani e di politica. Le due cose possono ancora andare insieme, possono avvicinarsi in maniera sana? Se sì, in che modo?

Se osserviamo l’Italia, il dato che mi sembra più significativo è l’enorme numero di astenuti o indecisi che ha segnato le consultazioni degli ultimi anni, una progressiva disaffezione alla politica che riguarda anche una fetta importante di giovani. Se allarghiamo lo sguardo, notiamo per contro  una nuova stagione di attivismo che ha coinvolto milioni di ragazzi in tutto il mondo, dalle primavere arabe, tragicamente trasformate in “democrature” o in vere e proprie dittature, agli attivisti del Friday for Future, ai giovani che protestano a Hong Kong contro il controllo del governo cinese. Penso che i ragazzi abbiano interessi politici ma la forma partitica, per ciò che rappresenta e per quello che oggi esprime, non sia in grado di rispondere alle loro richieste. Siamo di fronte a un passaggio importante e credo che sarà interessante osservare l’evoluzione della politica e delle forme di rappresentanza, perché penso che assisteremo a dei cambiamenti profondi, supportati anche da una pervasività tecnologica che influenza la sensibilità collettiva e, di conseguenza, ne indirizza le scelte. Nel bene e nel male.

Leggendo la tua storia sembra che sia impossibile crescere e maturare senza attraversare il dolore. Che importanza ha nella vita e nella formazione dell’identità di ognuno di noi il dolore?

Silvia BottaniLa prima esperienza che facciamo del mondo, dopo il respiro, è il distacco dalla madre, un esperienza di dolore. Il passaggio dall’infanzia all’età adulta implica la presa di coscienza della morte e con l’assunzione della responsabilità personale, la possibilità di agire il bene ma anche il male. Il dolore è parte essenziale della nostra vicenda umana e penso che rimanga un mistero, un domanda che risuona attraverso la Storia e che richiama la nostra attenzione verso un livello di realtà più profondo. Non è però il dolore in sé a essere istruttivo, anzi ritengo che il male, la sofferenza possano essere delle esperienze annichilenti, come testimonia la voce di chi è sopravvissuto ai genocidi o alle guerre. Non tutto è favola o racconto morale, non sempre c’è un patrimonio di conoscenza che ci attende una volta attraversato il cerchio del fuoco. Dal punto di vista letterario, però, è indiscutibile che l’esperienza del conflitto sia il motore per eccellenza della narrazione e che, di fronte al dolore, un personaggio riveli le sue qualità o i suoi abissi. Prendiamo l’Hitchcliff di Cime Tempestose: non avremmo avuto un villain così memorabile senza il suo amore infelice per Catherine. Oppure come sarebbe stato il cupo, cinico Bardamu, protagonista di Viaggio al termine della notte, se non fosse passato per le trincee della Grande Guerra? O ancora, la meditazione di Adriano si sarebbe innalzata fino alle vette raggiunte nelle omonime Memorie, scritte da Marguerite Yourcenar, senza la perdita dell’amato Antinoo? Gli esempi sono infiniti e, per rovesciare l’ipotesi iniziale, diciamo che non è il dolore che insegna, ma che attraverso l’arte anche il dolore può restituirci un senso.

Istinto e ragione, contrapposti come giorno e notte. Sei riuscita a capire cosa scelgono alla fine i protagonisti del tuo romanzo?

Ho voluto raccontare una tregua tra Naima e Stefano, “la possibilità di un’isola”, per citare Houellebecq, e per me è chiaro che il loro incontro sia frutto di una condizione temporanea.

Et l’amour, où tout est facile,
Où tout est donné dans l’instant.
Il existe, au milieu du temps,
La possibilité d’une île.

(e l’amore in cui tutto è facile,
in cui tutto è dato nell’attimo;
esiste in mezzo al tempo
la possibilità di un’isola.)

Non voglio ipotecare il futuro dei personaggi, mi piace lasciare al lettore la possibilità di immaginare un dopo, ma personalmente tendo a credere che la dialettica tra istinto e ragione che li coinvolge si sviluppi in un momento speciale all’interno del loro percorso di vita. Successivamente, credo che in ognuno prevarrà la propria matrice culturale e la propria storia individuale rispetto alla passione. Questo però non toglie niente, dal mio punto di vista, alla bellezza dell’incontro da due persone così differenti e destinate a non avvicinarsi mai. Il senso ultimo per me non è nella durata dell’evento, ma nel fatto che la possibilità si compia. Lì vedo la bellezza.

Silvia Bottani tra letteratura e lo scorrere del tempo

Leggendo il tuo romanzo appare subito chiaro come la realtà e la quotidianità siano ciò che ti interessa di più. Davvero la letteratura è ancora uno degli strumenti migliori per raccontare la vita?

Silvia BottaniPenso che la letteratura sia in assoluto uno degli strumenti di dissezione della realtà più efficaci. Possiamo chiederci se la forma – romanzo sia ancora in grado di parlare la lingua del presente e contenere in sé le coniugazioni future – e io penso di sì – e interrogarci su quanto il romanzo possa mutare senza perdere la propria specificità. Sono domande che mi pongo e che penso abbiano una loro importanza. Spostandoci da un piano più teorico a uno più specifico, quello che mi interessa in un romanzo è la combinazione tra lo sguardo dell’autore e la sua voce, la capacità di offrirmi una visione del mondo peculiare e irripetibile, le domande che fa nascere in me. Il registro realistico è solo uno dei tanti possibili a disposizione di un autore e non ho una specifica predilezione per chi sceglie questo tipo di narrazione. Mi interessano e mi appassionano gli scrittori in grado di aprire al fantastico, al perturbante, chi offre degli squarci e delle illuminazioni, e credo che il racconto del quotidiano, come ha dimostrato Kafka in maniera sublime, non sia in alcun modo vincolato a una volontà mimetica o “naturalistica”. Oggi siamo consapevoli che la realtà che tendiamo a ritenere oggettiva sia in gran parte frutto delle nostre percezioni, ed è interessante vedere come la letteratura spesso abbia colto prima della scienza alcuni aspetti controintuitivi dell’esistente, come la natura non lineare del tempo o l’intelligenza degli ecosistemi. Quindi il termine “realismo” è sostanzialmente fuorviante, perché rimanda a uno stilema che comprime le possibilità esplorative della realtà e le addomestica.

In Il giorno mangia la notte ho scelto di raccontare una vicenda che parte da un dato reale e che si mantiene su un piano fenomenico, ma ho disseminato nella narrazione dei momenti di dilatazione che spezzano il ritmo narrativo e sono come dei piccoli frammenti di visioni. Ho utilizzato una lingua asciutta, che mi sembrava rispettasse il registro di questa specifica storia, ma non è detto che in futuro non scelga di esplorare territori diversi. Posso dire con certezza che i temi sociali  e l’osservazione della prossimità, del quotidiano, sono al centro dei miei interessi letterari, ma con altrettanta certezza posso dire di non sentirmi vincolata a un genere né a un immaginario specifico.

C’è un bellissimo passo del tuo romanzo in cui Naima, davanti allo specchio, riflette sul passare del tempo. Silvia Bottani che rapporto ha con il tempo che passa e con tutti quei cambiamenti che sono inevitabili?

Un rapporto complicato. Per anni, il tempo che passava non ha attirato la mia attenzione. Mi è sembrato che fosse abbondante e in lenta progressione. Poi, in maniera inaspettata, ho avvertito un’accelerazione, una discrepanza tra il tempo interiore e quello anagrafico. Invecchiare è un privilegio della modernità ma trovo terribile assistere al decadimento fisico e oggi non posso dire di essere serena in merito, anche perché la vecchiaia agita in me dei fantasmi come la precarietà economica e la perdita degli affetti. Forse un giorno farò pace con l’ineluttabilità del tempo che scorre ma, per il momento, la mia vecchiaia è un’idea che mi procura un certo disagio.

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diDonato Bevilacqua

Proprietario e Direttore editoriale de La Bottega di Hamlin, lettore per passione e per scelta. Dopo una Laurea in Comunicazione Multimediale e un Master in Progettazione ed Organizzazione di eventi culturali, negli ultimi anni ho collaborato con importanti società di informazione e promozione del territorio. Mi occupo di redazione, contenuti e progettazione per Enti, Associazioni ed Organizzazioni, e svolgo attività di Content Manager.