Edith Bruck

Edith Bruck: una feroce testimonianza

Edith Bruck, all’anagrafe Edith Steinschreiber, nasce il 3 maggio 1932, in un piccolo villaggio ungherese (Tiszabercel), alla frontiera ucraina. Viene deportata a soli 12 anni ad Auschwitz insieme ai i genitori, due dei fratelli e una delle sorelle.

Edith Bruck cresce a Tiszakarád, un piccolo villaggio ungherese, e fin dall’infanzia conosce l’ostilità e le discriminazioni del suo paese, così come a quel tempo nel resto d’Europa, dilaga la ferocia nazista contro il popolo ebreo, un presagio minaccioso, “come latte avvelenato.” Nel 1954 si trasferisce a Roma, dove poi sposerà Nelo Risi.

Cerchiamo quindi di approfondire il suo stile, le tematiche affrontate nelle sue opere e il rapporto con la memoria e la testimonianza.

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Una nuova lingua

Edith Bruck adotta “una lingua non sua”, una lingua d’elezione. Prima di diventare una scrittrice e una poetessa “naufraga” senza una lingua precisa, non sa bene come parlare e come decifrarsi. La donna Bruck rinasce in questa ambiguità esistenziale e attraverso una lingua acquisita, afferrata, trovata, abbraccia nella sua sofferenza l’amore infinito per il nuovo marito.

Proprio il suo salto “linguistico” rende la parola “diversamente affarrabile”, pre-potente, profondamente sintomatica. Sono proprie le parole scollate dalla lingua ungherese a far rivivere nell’habitus linguistico la lingua italiana, tenuta stretta come una maschera, come rifugio, come corazza contro e con il mondo.

Edith Bruck in Israele era l’ungherese, in Ungheria l’ebrea, in Italia l’ungherese sopravvissuta, ma non è solo questo, è molto altro, un continuo dialogo nomade e polifonico dei sé.

Edith Bruck e i suoi libri

Nel 1959 pubblica il suo primo romanzo autobiografico Chi ti ama così, preludio di una lunga attività di testimonianza della Shoah. La sua opera autobiografica è un insostenibile debito nei confronti del passato e del dolore, scoprendo di essere stati dimenticati. “Quando ero nei campi di concentramento e nessuno veniva a liberarmi, mi chiedevo: come può il mondo essersi dimenticato di noi”? 

Scrittrice, poetessa, sceneggiatrice, regista, Edith Bruck viene tradotta in molte lingue e riceve numerosi premi letterari, fra cui il ‘Rapallo Carige’ e il ‘Viareggio’. Oltre a scrivere per il teatro, il cinema e la televisione, traduce i poeti ungheresi Attila József e Miklós Radnóti. Tra le numerose opere di Bruck ricordiamo Le sacre nozze (Longanesi, 1969), Mio splendido disastro (Bompiani, 1979), Lettera alla madre (Garzanti, 1988), Nuda proprietà (Marsilio, 1993), L’attrice (Marsilio, 1995), Signora Auschwitz (Marsilio, 1999), Quanta stella c’è nel cielo (Garzanti, 2009), La donna dal cappotto verde (Garzanti, 2012), La rondine sul termosifone e l’ultimo commovente Ti lascio dormire editi entrambi editi dalla casa editrice la Nave di Teseo (2017, 2019).

Dal 2018 in libreria esce la raccolta poetica Versi vissuti (eum, 2018) curata da Michela Meschini, che raccoglie in un unico volume le tre sillogi “Il Tatuaggio”, “In difesa del padre”, “Monologo”, scritti dal 1975 al 1990, “consegnano al mondo la condizione difficile della sopravvissuta: / … E quando avrà termine / questa missione? / Sono stanca della mia / presenza accusatrice, / il passato è un’arma / a doppio taglio / e mi sto dissanguando… “

Edith Bruck

Tra testimonianza e memoria

Nelle parole di Edith Bruck c’è il dovere di non dimenticare, una condanna a ricordare che la “costringe” al ruolo di “testimone”. Il gesto della memoria obbliga la scrittrice ad una gestazione di un dolore “implosivo” traducendo la sua intimità civile (non intimistica) nell’alfabeto della politica umana, riscattando “l’odore razzista” che aleggia in Europa (e non solo).  “Se tu vedessi il mondo mamma, preferiresti morire. Ma neanche la morte ha valore. I morti di ieri non hanno riscattato il diritto alla vita dei vivi. Tutto è come prima di Auschwitz”.

La lingua della poetessa e della scrittrice è essenziale, cava, scabra, verticale come la vita vissuta nei suoi versi singolari gonfi di resistenze struggenti. Il vuoto conquistato della scrittura sommessamente “verseggia” nell’amaro inno alla gioia, accudendo la tenerezza dei ricordi colmi di orrore.

Non si da pace Edith, Signora Auschwitz nel luogo “tormentato” del corpo e nel corpo, un tatuaggio intrappolato sulla pelle, una camicia di forza stretta che soffoca ed incapace di liberarsene. Il calvario continuo è un viaggio infinito nei lacci della memoria e il peso insopportabile del passato è un chiodo nello stomaco. Essere sopravvissuti consegna al “salvato” il “sommerso del testimone” rendendo conto ad un destino acuto, ad un senso di colpa nei confronti del silenzio, una fuga che sarebbe interpretata come tradimento.

Nelle ultime fatiche letterarie di Edith come ne La rondine sul termosifone (2017), la scrittrice sposta il suo dolore raccontando la sua vicinanza a Nelo nel momento della malattia che ci rende tutti fragili. La scrittura traccia lo spazio del riparo e dell’”insurrezione” verso una quasi “resurrezione”. É nell’ultima opera di Edith Bruck, Ti lascio dormire (2019), che la stella dell’amore esplode come un “big bang”. Nella lunga lettera dedicata al marito scomparso dopo oltre dieci anni di morbo di Alzheimer, lo fa rivivere, come l’ossigeno del fiato, tra le urla della badante Olga e la scrittura “ossessiva” nel picchiettare sulla vecchia Olivetti recuperata per l’occasione.

La conversazione Bruck-Nisi è un comizio d’amore di quelli veri, raro, unico, delicato e feroce, “ingenuo” nella sua bellezza profonda. La mancanza esplode in un vuoto urgente, in una confessione intima d’amore. È questa l’occasione per evocare la libertà, quella reale, dove Bruck sperimenta “l’abbandono della ferita del passato” (solo per un attimo), per un doppio taglio esangue, dove proiettare il due nell’uno e per sentirsi semplicemente nel connubio del vivere. L’appello liberatorio di Edith verso Nelo è come una quiete dopo la tempesta, come My way di Sinatra, come un sorriso nel sogno chiamato con l’indice della mano e come battiti irregolari del cuore.

Ecco che Edith Bruck nella la sua cifra stilistica feroce e delicata eleva la vita dentro l’organismo della Storia con le sue paure e le sue assurdità. Il corpus della scrittura si fa poesia immanente, generosa, come in un dialogo nudo con il lettore, nell’incontro del contatto, un corpo a corpo – negato in questo periodo di Covid19 – per poi ricucere la trama nello strappo dell’assenza del lutto, oggi vissuto nel diniego del funerale.

La poesia è interno, è tuorlo, nocciolo, saldatura, armatura, ricerca, raccolta, dono, offerta, libertà, resistenza, apertura, che regge, malgrado tutto, il passato, per accendere il lume della speranza del presente rivolto verso un futuro prossimo indeterminato, consapevoli e attenti, nonché responsabili, che “ciò che accade è sempre già accaduto, ciò che è accaduto non finirà mai di accadere”.

C’è chi colleziona farfalle / e chi colleziona medaglie / chi denaro chi francobolli / c’è chi costruisce armi / chi le usa / chi lavora se c’è lavoro / c’è chi si perde dietro un amore / vincendo una vita.

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diGiorgio Cipolletta

Artista e perfomer italiano, studioso di estetica dei nuovi media. Dopo una laurea in Editoria e comunicazione multimediale, nel 2012 ho conseguito un dottorato di ricerca in Teoria dell’Informazione e della Comunicazione. Attualmente sono professore a contratto per corso di Fotografia e nuove tecnologie visuali presso Unimc. La mia prima pubblicazione è una raccolta di poesie “L’ombra che resta dietro di noi”, per la quale ho ricevuto diversi riconoscimenti in Italia. Nel 2014 ho pubblicato il mio primo saggio Passages metrocorporei. Il corpo-dispositivo per un’estetica della transizione, eum, Macerata. Attualmente sono vicepresidente di CrASh e collaboro con diverse testate editoriali italiane e straniere. Amo leggere, cucinare e viaggiare in modo “indisiciplinato” e sempre alla ricerca del dono dell'ubiquità.