Abbiamo intervistato Cecilia M. Giampaoli, l’autrice di Azzorre (NEO edizioni). Un libro che si muove tra romanzo e reportage e che è un viaggio nel passato doloroso della scrittrice.
Così, in questa chiacchierata, abbiamo cercato di capire come memoria e letteratura sono legate, come si può trovare un equilibrio con il proprio passato e cosa si può trovare guardandosi indietro. Ecco la nostra intervista a Cecilia M. Giampaoli.
Leggi anche – Azzorre. Il romanzo di Cecilia M. Giampaoli
Cecilia M. Giampaoli all’indietro nella sua storia
Cecilia M. Giampaoli, quando hai deciso di raccontare la tua storia? E perché ad un certo punto hai sentito la necessità di tirare fuori qualcosa di così personale?
Un giorno di maggio del 2014 ho deciso di affrontare questa storia, erano venticinque anni che convivevo con una perdita a cui non avevo mai dato una forma precisa, fino a quel momento mi ero accontentata di sapere che mio padre non sarebbe tornato a casa. Un paio di settimane dopo avevo in mano un biglietto aereo. Ho iniziato a scrivere il mio diario nella camera di un ostello di Lisbona e ho continuato fino alla fine del viaggio.
Il tuo è un viaggio alla ricerca di risposte. Che cosa volevi o speravi di trovare nel luogo che ti ha causato tanto dolore?
In realtà, anche se può facilmente sembrare, non ero alla ricerca di risposte. Volevo ripercorrere all’indietro la mia storia fino al punto in cui ha cambiato repentinamente direzione determinando quello che sono oggi. Volevo vedere da vicino quel bivio: tornare lì.
Una liberazione tra passato e futuro
Azzorre si muove tra diario, memoir, reportage. Hai scelto sin dall’inizio di mescolare più stili narrativi? E quale pensi sia lo stile in cui la tua scrittura si riflette maggiormente?
Non mi sono fatta questa domanda mentre scrivevo. Mi sono accorta che questo lavoro andava collocato e che non sarebbe stato facile farlo quando sono tornata a casa e ho chiuso il manoscritto. Le persone a cui l’ho fatto leggere lo definivano romanzo, dicevano che funzionava a prescindere dall’aderenza della narrazione alla storia che avevo vissuto, e che era meglio, ai fini di una pubblicazione, che lo presentassi così. Ho iniziato a ragionare di nuovo sulla natura del lavoro solo dopo l’uscita del libro. Spesso uso il termine reportage narrativo, ma solo per scardinare la scaffalatura dei romanzi su cui si tende ad appoggiarlo. La memoria fa spesso incursione in questo lavoro così come in quasi tutti i miei racconti. L’accostamento di diverse dimensioni temporali mi sembra aggiunga profondità alla narrazione: non è vero, mi chiedo, che capiamo il presente solo perché lo rapportiamo al passato?
Nel tuo percorso a ritroso, fare i conti col passato vuol dire anche vivere meglio il futuro. Vuoi spiegarci meglio questa sorta di “liberazione” nel trovare risposte alle tue domande?
Fare i conti col passato mi è servito a capire che non lo posso cambiare, ma che posso scegliere come vivere il presente perché quello che faccio oggi, il modo in cui mi rapporto alle cose e alle persone, il modo in cui scelgo di elaborare quello che è già stato, condiziona il mio futuro: sancisce nella linea delle causalità ogni futuro ancora possibile. Non credo sia un’idea astratta. Durante il viaggio ho conosciuto molti amici. La stessa isola per me ora ha un significato speciale che non posso affatto definire negativo. La persona con cui ho stretto il legame più importante è il controllore che era alla torre e che ha la sua parte di responsabilità in ciò che è successo. La vita di entrambi è cambiato grazie al nostro incontro, e so che non sarebbe stato così se fossi arrivata da lui carica di rabbia o risentimento. Allo stesso modo, il coraggio con cui lui ha scelto di incontrarmi è stato necessario perché io potessi chiudere questa esperienza e proiettarmi nel futuro che oggi già vivo.
Letteratura e memoria
Ritengo che la letteratura sia uno strumento utile per rapportarsi al personale, alla perdita o al dolore. Cosa significa per te la letteratura e che rapporto ha con la memoria?
Nella vita mi occupo di progettazione artistica e uso linguaggi diversi per raccontare. La memoria è una delle scatole da cui attingo più spesso. I miei sensi e la mia storia sono l’unico filtro che ho per osservare il mondo, ma è sufficiente confrontarsi con gli altri per accorgersi che le emozioni umane sono di natura piuttosto ordinaria: tutti hanno una storia, tutti (o quasi tutti) hanno un dolore che sembra speciale, insostenibile, il più grande, l’unico. La causa scatenante non è importante, la portata di un evento è del tutto relativa. Siamo in grado di comprendere esperienze che non abbiamo vissuto in prima persona perché riusciamo a metterle in relazione con le nostre, per questo penso che sia possibile partire da sé per raccontare qualcosa che riguarda anche gli altri. La letteratura è uno strumento impareggiabile ma, a meno che non si intenda scrivere un diario da tenere sul comodino, credo che una storia autobiografica funzioni se riesce a mantenere i giusti spazi di rispetto nei i quali chi legge possa muoversi liberamente portando con sé la propria esperienza.
Cecilia M. Giampaoli, dopo questo viaggio hai trovato una strada nuova per guardare il passato e il futuro?
Sì, sono tornata dal viaggio cambiata. Mi è servito del tempo per elaborare ciò che era successo sull’isola e ancora, quando rileggo il diario, mi pare che alcune cose prendono senso. Penso di aver reso omaggio a mio padre nell’unico modo in cui ero in grado di farlo: vivendo il mio presente senza il peso del rancore e permettendo alla sua storia di tornare a vivere nella mente delle persone che leggono il mio libro. I libri hanno un potenziale rigenerativo infinito e scrivere mi è sembrato il modo migliore per opporre alla stasi sterile del lutto qualcosa di vitale.
Leggi anche – Roberto Camurri: Racconto ciò che è profondamente mio. La nostra intervista