Favolacce

Favolacce: una non favola

Inizialmente previsto al cinema il 16 aprile Favolacce dei fratelli D’Innocenzo è uno dei film più apprezzati di questo 2020, nonché vincitore del premio alla miglior sceneggiatura per l’Orso d’argento nel Festival di Berlino.

A causa della pandemia, l’opera  cinematografica è stata distribuita sulla piattaforme on demand a partire dall’11 maggio. Classe 1988, i due registi fratelli gemelli, partono da Tor Bella Monaca per arrivare al gran successo della Berlinale passando da Garrone come co-sceneggiatori di Dogman (2018) e al Sundance festival intercettati dal Paul Thomas Anderson.

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La trama

Favolacce si ispira a una storia vera. La storia vera è ispirata a una storia falsa. La storia falsa non è molto ispirata. Con questo paradosso del “mentitore” dove il vero e il falso si mescolano, così vero così falso, i Fratelli D’Innocenzo ci regalano un’analisi profonda tra limiti e bruttezze, dove si squarcia il velo delle apparenze. L’opera seconda dei fratelli D’Innocenzo è un diario intimo, un diario “cattivo”, strampalato che ci catapulta nell’abisso di una favola senza lieto fine. La voce adulta di Max Tortora ci accompagna in questo viaggio terribile, difficile da digerire.

Siamo a Spinaceto nelle villette a schiera romane dove Favolacce registra la sua non-favola in un quartiere “innaturale” restituendo all’occhio immagini-incubo e spalancando ferocemente un grande senso di inquietudine senza una via di fuga o di riscatto. C’e sempre qualcosa di brutto in agguato, sotto al caldo asfissiante. Favolacce è proprio una stroriaccia di quelle che fanno male, colpiscono basso.

I fratelli D’Innocenzo narrano di dodici personaggi. Troviamo Bruno interpretato da Elio Germano e sposato con Dalila (Barbara Chichiarelli). Bruno è un padre disoccupato, nonché frustrato e rabbioso, che autodistrugge se stesso e tutto ciò che ha intorno, compresi i suoi due figli Dennis e Alessia (Tommaso Di Cola e Giulietta Rebeggiani), i quali si dimostrano obbedienti e rispettosi ovunque, mostrando pagelle d’oro di fronte a amici e vicini.

Max Malatesta, Tommaso di Cola e Ileana D’Ambra, la bambina con difficoltà di apprendimento Viola (Giulia Melillo), Geremia (Justin Kurovnin) che vive con suo padre Amelio (Gabriel Montesi) in un piccolo prefabbricato, il professor Bernardini (Lino Musella), il bombarolo che dispensa formule e progetti distruttivi, tutti questi personaggi raccolgono a modo loro, le smorfie, i volti di un mondo, quello adulto insanabile, animalesco, insoddisfatto che grugnisce e appassisce, colpendo la fanciullezza fino a schiacciarne i propri sogni.

Favolacce. La recensione

Da La Terra dell’abbastanza (2018) a Favolacce, i fratelli D’Innocenzo, Fabio e Damiano, raccolgono il suono sghembo di una vita scevra con voce narrante dissonante che spiazza lo spettatore, incapace di reagire alla bruttezza restando intrappolato alla crosta delle immagini. I due fratelli romani trasformano il linguaggio cinematografico in poesia estrema, retaggio di una memoria cara a Pasolini e ai suoi ragazzi di vita. Roma Sud, terra di villette mono familiari, giardini, barbecue e piscine gonfiabili raccordano lo scenario delle apparenze dentro ad un vortice  febbrile decorato di borghesia e speculazione edilizia delle eco-mafie.

Proprio nel cuore della periferia romana le vite apparentemente normali nascondono la loro condizione di miseria “nera” dal sapore amaro dei margini e delle storpiature. Nell’apparente tranquillità di una  periferia residenziale si cela una trama di invidie, rivalità e ipocrisie che si amplificano in una feroce disperazione di esistenze che si trascinano ai bordi della vita, colpendo la parte più innocente e fragile, ossia i bambini. Favolacce è cronaca di una morte annunciata, tragedia contemporanea, che procede fatale verso la rovina.

I fratelli D’Innocenzo annullano linguisticamente la narrazione dirottando la grammatica cinematografica dentro al rovescio della parola non scritta, nell’inquadratura sofferente che rapisce primissimi piani intervallati da dettagli dell’oggetto. Questa adesione al dolore scava dentro l’umanità e la sua deriva, dove persino il silenzio si rompe in dialoghi di superficie e persino alla musica è proibito entrare per lasciare un respiro di speranza.

Favolacce è disturbo, perturbazione, cantilena di morte, squarcio, ferita, terra di mancanza piuttosto che abbondanza, forse quest’ultima è nel rito dell’apparenza. Favolacce è il male di vivere che spesso ancora incontriamo, nel suo mutismo feroce, impercettibile come un virus virulento, nella sua violenza ineluttabile. I bambini restano testimoni, nonché vittime di una corsa al massacro, il massacro della rabbia, della disperazione fino alla fine, ma è il loro coraggio che nonostante tutto ancora ci conforta. Proprio come dichiarano i fratelli d’Innocenzo in una bella intervista alla Stampa, Favolacce dice «che non è il luogo a determinare chi sono le persone, ma è il contrario: e sono le persone che determinano il luogo. Favolacce è stato una risposta a chi ha ignorato La terra dell’abbastanza perché ambientato nella periferia. Dopo averlo visto, è difficile uscire dalla sala con la coscienza a posto; parla degli insospettabili, parla della provincia, parla di tutti quanti noi. Noi facciamo i film per raccontarci. Ma non per raccontare la nostra vita. Certo, anche quello fa parte del gioco; ma prima, molto prima, deve venire l’arte, poi l’artista».

Questa volta, non usciamo dalla sala cinematografica, dai tendoni polverosi che ci separa dall’uscita delle sale cinematografiche del centro storico (poche) e dalle multisale (troppe) non ci è ancora permesso. Ci alziamo invece dal divano della quarantena, dalla nostra sedia, spegniamo lo schermo del nostro pc, interrompiamo di colpo lo scintillio dei pollici lucidi della tv (non tanto smart), perché non c’è altro che buio dentro a Favolacce, non c’è respiro e se anche ce ne fosse ancora qualche riserva, ci viene tolta di getto, ci si strozza, ne sa qualcosa il povero George Floyd, (I Can’t breathe), così come fu per Eric Garner (2014) due afroamericani uccisi dalla logica razzista della polizia, rispettivamente a Minneapolis e a New York semplicemente per il colore della pelle. Favolacce ci toglie il respiro e in questa mancanza si spalanca la terra.

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diGiorgio Cipolletta

Artista e perfomer italiano, studioso di estetica dei nuovi media. Dopo una laurea in Editoria e comunicazione multimediale, nel 2012 ho conseguito un dottorato di ricerca in Teoria dell’Informazione e della Comunicazione. Attualmente sono professore a contratto per corso di Fotografia e nuove tecnologie visuali presso Unimc. La mia prima pubblicazione è una raccolta di poesie “L’ombra che resta dietro di noi”, per la quale ho ricevuto diversi riconoscimenti in Italia. Nel 2014 ho pubblicato il mio primo saggio Passages metrocorporei. Il corpo-dispositivo per un’estetica della transizione, eum, Macerata. Attualmente sono vicepresidente di CrASh e collaboro con diverse testate editoriali italiane e straniere. Amo leggere, cucinare e viaggiare in modo “indisiciplinato” e sempre alla ricerca del dono dell'ubiquità.