Jeff Buckley – Grace

Sangue e anima. La voce di Jeff Buckley, più delle parole o della musica, è il collante di Grace, un lamento in grado di modulare l’intensità del cantastorie folk con la disperazione del blues e la foga del gospel. È una voce più terrena di quella del padre, Tim, più maschia, ma ugualmente carezzevole e intensa. Anche la scrittura ha un suo tratto peculiare, è più rispettosa della forma canzone, più “pop”, visionaria – anche qui – a modo suo. In comune tra i due c’è un destino crudele, che in circostanze diverse (per Tim fu la droga, per Jeff un annegamento accidentale) li ha strappati alla vita ancora giovani.

Jeff ha fatto in tempo a regalarci un solo disco, Grace appunto: un solo disco “compiuto”, in effetti, ché alla sua morte è spuntato fuori il solito corollario di demo, live e cover inedite, epitaffio tutto meno che necessario. Grace, dicevamo: registrato al Bearsville Recording Studio di Woodstock, sotto la guida del produttore Andy Wallace, è uno degli album centrali degli anni ’90. Al di là delle esagerazioni dettate dalla commozione, le dieci tracce in scaletta hanno effettivamente la consistenza dei classici. Rimandano a orizzonti infiniti (Corpus Christi Carol) e addii piovosi (Lover, you’ve should come over), bruciano di passione mistica e carnale, annusano la morte in qualche modo presagendola (Grace, Last goodbye, Eternal life). Buckley, con accanto il bassista Mick Grondahal, il batterista Matt Johnson e il chitarrista Gary Lucas, gioca con il rock, il folk, il soul, il jazz, ne sfuma i confini, proiettandoli in un limbo tra il sogno e l’allucinazione. La title-track è il caposaldo dell’album, un connubio perfetto di grinta e romanticismo guidato da un arpeggio memorabile, ma gli altri brani non sono da meno. Mojo pin, ad esempio, alterna toni sommessi ad impennate liriche, furenti. Sullo stesso versante si collocano la nevrotica So real (che esplode letteralmente a metà) ed Eternal life, che apre con un basso metallico per poi proseguire in direzione Neil Young.

Corpus Christi Carol si distende lieve, ambisce al sublime: Buckley canta di cavalieri feriti e damigelle portate via da falconi in un registro quasi da soprano. È il vertice della rarefazione dell’album, e forse l’unico brano che richiami davvero lo stile del padre. Altrove, invece, sono i Pink Floyd a riecheggiare (Dream brother, poi mandata a memoria dai Radiohead), o Leonard Cohen: sua è infatti Halleluja, che il cantato di Jeff materializza, rende cosa viva.

Tra i passaggi più tenui figurano anche Lover, you should’ve come over e Lilac wine (altra cover, di James Shelton), orchestrata con impeccabile gusto jazzy. Non c’è però frattura tra le due dimensioni, ma una continuità febbrile e incantata, uno spasmo vitale che sublima l’ansia e il dolore e ne fa poesia.

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