Sulle barche piene di migranti e tra i cadaveri che ripeschiamo dal mare, ci sono storie che vanno raccontate e che la nostra memoria di Nazione troppo spesso dimentica. Sono storie che nascono da lontano e che raccontano di viaggi, dolori, fughe e solitudini, che uniscono quei migranti agli abitanti di Lampedusa. Davide Camarrone ci racconta tutto questo, l’operazione “Mare Nostrum”, le frontiere e il senso dell’accoglienza.
Davide, che cosa significa per te “migrare”? E chi sono i “migranti”?
Migrare è oramai una condizione stabile della nostra esistenza. Ordinaria. Non lo dico solo per il passato. Anche se io porto un cognome che racconta di un passato di migrazioni e i siciliani sono un frullato di una ventina di popoli differenti. Lo dico per il presente e per il futuro. I nostri figli studiano all’estero, e sempre di più all’estero decidono di stabilirsi, per una porzione o per il resto della loro vita. E qui per la Sicilia transitano decine di migliaia di profughi e migranti in cerca di una vita migliore: molti di loro, proseguono il loro viaggio per l’Europa. Quando parliamo di loro, è bene ricordare a noi stessi che spesso si tratta di sopravvissuti: di persone che hanno alle spalle vite difficilissime nei loro paesi di provenienza (per fame, sfruttamento, scontri e guerre), un viaggio terrestre per il deserto e una lunga permanenza nei centri di sosta e nei porti dove regnano corruzione e violenze d’ogni genere. Per non dire dei viaggi in mare. Noi sappiamo di quasi ventimila morti, dal 1988 ad oggi, nel Mediterraneo, e sono recentissime le stragi nell’Egeo e nello Stretto di Sicilia. Ma sono i morti accertati ufficialmente dai soccorsi. Poi ci sono quelli denunciati dai parenti, che ne hanno perso le tracce, e quelli mai denunciati. I morti sono molti, molti di più. Il Mediterraneo è una grande fossa comune. E’ il prezzo che l’Europa ha scelto di pagare per tentare di opporsi alla più grande migrazione della storia umana: un fenomeno che è impossibile arrestare o semplicemente comprimere.
Lampedusa è considerata, non solo geograficamente, la porta dell’Europa. Da cosa nasce questa convinzione? Cioè, come si è arrivati a dare simbolicamente e concretamente all’isola questo ruolo?
L’isola che io chiamo al modo in cui la chiamano i migranti, Lampaduza, è stata in qualche modo eletta porta d’Europa, e questa sua condizione è stata perfino sancita da un monumento di Mimmo Paladino, eretto proprio di fronte al mare. Questa elezione ha una storia complessa, che io racconto nel mio reportage, ed è stata favorita dai nostri governi, dall’Europa, dal sistema mediatico: da chi denunciava i rischi dell’approdo e invece sosteneva il sogno di chi voleva cambiar vita. Sicché, si preferisce Lampaduza a Pantelleria, ad esempio, Lampaduza ha una storia complessa, e da Lampaduza passano tutte le nostre contraddizioni. La speranza e la disillusione, la vita e la morte.
Spesso dimentichiamo che l’odissea dei migranti parte da lontano, e prima del mare c’è un viaggio infinito. Quali storie ci sono al di là delle coste africane?
Ci sono le storie di chi ha vissuto in un mix per noi incomprensibile di arretratezza e modernità, talvolta di slums invivibili e università avanzatissime, di regimi dittatoriali che si succedono uno dopo l’altro e di canali tv satellitari che mostrano la libertà, di violenze morali e materiali e disperazione e di passeurs che promettono la fuga in cambio di un riscatto di molte migliaia di euro. Ci sono i fondamentalismi religiosi, i lunghi servizi militari obbligatori, gli scontri, le guerre, la sospensione della democrazia, la disoccupazione come condizione normale, lo sfruttamento delle concessioni minerarie, la rapina delle risorse naturali da parte dell’Occidente che continua a spartirsi nazioni e territori in zone d’influenza e che spesso interviene militarmente, apertamente o meno. Non c’è tutto questo in ogni momento e in tutti i luoghi, ma son queste le storie.
Ci spieghi a grandi linee l’operazione Mare Nostrum? Che cos’è, con quali obiettivi nasce, come mai oggi se ne discute così tanto e dove è possibile intervenire?
L’operazione Mare nostrum nasce in Italia ed è gestita dall’Italia, con il sacrificio, l’abnegazione, la buona volontà di molte persone, servitori sello Stato: bisogna riconoscerlo. Ma si tratta di un’operazione sbagliata già nella sua denominazione. Il Mediterraneo non è nostrum. E’ un mare che appartiene a tre continenti: è un grande mare comune, anzi: è una conca inquinata e impoverita dal supersfruttamento ittico, riscaldata dall’effetto serra, pervertita dalle attività umane. È un mare monstrum e dovrebbe essere il nostro Giordano. Dovremmo costruire con l’Europa un diverso rapporto, affinché l’Europa dialoghi diversamente con quel Continente, l’Africa, che è indicato come il luogo nel quale la ricchezza crescerà più rapidamente, nel prossimo futuro: e in un futuro non troppo lontano potrebbe invertirsi la direzione delle migrazioni..
Sei stato a Lampedusa per molto tempo e l’hai raccontata. Che cosa hai imparato di e da questa terra? Di e da questa gente di cui nessuno parla?
Sono stato a Lampaduza molte volte. E ho rivisto i vizi e anche le virtù dei siciliani, del popolo al quale appartengo. Siamo capaci di egoismi ma anche di grandi commoventi atti di solidarietà. Ci illudiamo di poter migliorare la nostra condizione senza ragionare insieme del nostro futuro. Compiamo scelte sbagliate, che distruggono le nostre economie e i nostri territori. Soffriamo insieme a chi soffre, e ci dimentichiamo di frequente della nostra stessa sofferenza.
Ha senso parlare ancora di “confini” e “frontiere”? Quale significato dobbiamo e possiamo attribuire a queste parole?
Sono parole senza più molto senso, in un mondo collegato, in un tempo digitale, in un’economia sovranazionale, in un’epoca nella quale le sovranità nazionali cedono dinanzi a scelte centralizzate. C’è del buono e del cattivo in questo. I miei figli somigliano ai loro coetanei francesi o americani. O giapponesi. Dobbiamo sostenere le culture e la memoria sapendo che dall’incontro con altre culture e memorie nascerà altro. Dobbiamo sapere che il tempo non si ferma. Dobbiamo esser parte di questo processo, o saremo noi – e intendo noi europei – a restarne fuori.
Davide, che cos’è per te l’accoglienza?
E’ il segno di una modernità positiva, contro quell’altra modernità che è omologazione e silenzio. Accoglienza è dialogo ed è crescita. Ritrarsi dinanzi all’accoglienza è chiusura e negazione. E’ isolamento. L’accoglienza può essere un’opportunità. La Sicilia, faccio solo un esempio, è morta, culturalmente ed economicamente, quando i pirati dall’esterno e la “Santa” Inquisizione dall’interno ci spinsero a chiudere i nostri porti e ad espellere i diversi: gli arabi, gli ebrei, i non omologati. Rinunciammo al dialogo e alla fusione culturale in cambio di una pretesa purezza che è inaridimento. Passammo dal sorriso al pianto, dalla ricchezza architettonica alla finzione dei grandi palazzi e delle chiese ricche e ridondanti di stucchi, dalla vivacità culturale al predominio mafioso dei famigli. Ora, le migrazioni possono riportare quest’Isola alla sua migliore condizione, quella che fino al Quattrocento ne fece una terra unica, nella quale si parlavano correntemente cinque o sei lingue, si professavano le principali religioni e fiorivano le arti e il sapere. Di fronte a noi, abbiamo una grande opportunità. Parlo della Sicilia, ovviamente, per parlare del mondo. La linea della Palma che Sciascia un tempo profetizzò come omologazione alla subcultura mafiosa ed omertosa oggi potrebbe annunciare libertà e pluralità, esser di buon augurio, nella prossima futura risalita verso il Nord dell’Europa.