Delorean – Apar

Con Apar (“schiuma”) si comincia dalla copertina: due croci di legno unite insieme, opera dell’artista basco Jorge Oteiza, alla deriva in un mare luccicante. L’abbraccio dei legni, il loro galleggiare insieme, è sintomatico: nell’oceano di turbolenze grandi e piccole (l’amore che finisce malgrado le promesse, la crisi finanziaria), i Delorean non sprofondano, si aggrappano a quello che possono, e anche stavolta (dopo il boom internazionale di Subiza, 2010) vincono la loro sfida.

Con Apar siamo dalle parti di un pop sofisticato, danzereccio e malinconico al tempo stesso, venato di umori anni ’80, di inflessioni baleariche discrete. Insomma, le venature ipnagogiche di Spirit, il primo singolo estratto, e Unhold (con Carolin Polachek dei Chairlift alla voce), non sono forzate: a suon di riveberi e flauti opportunamente manipolati, aggiungono un tono malinconico o addirittura trascendente a melodie altrimenti briose. La varietà di Apar è subdola, agisce discreta, anche qui senza accademismi o pose da intellettuale postmoderno: Dominion è una sapiente fusione di Afrobeat e “french touch” à la Phoenix. Anche Destitute time, in effetti, guarda ai cugini francesi (in effetti, una somiglianza ricorrente nel corso dell’album), con pure un tocco di Animal Collective (versante Panda Bear) nell’aria.

Apar è l’album del risveglio, delle prime luci dell’alba che illuminano un giorno radioso comunque (malgrado il caos della vita di cui sopra). Un clima festoso percorre You know is right, giocata su un pattern ritmico tribale, strati di synth e vocalizzi, e la solita, impalpabile confusione di malinconia, dubbio, speranza ed edonismo. C’entrano, inevitabilmente, gli anni ’80, il fatto che i Delorean li abbiano da subito presi a modello – sin dal nome, che allude alla macchina del tempo di Ritorno al futuro. Di Walk high, ad esempio, tutto denuncia la vicinanza estetico-spirituale con quel decennio (il santino è quello dei Prefab Sprout, stavolta): il gioco però è talmente tanto scoperto e onesto, tanto piacevole e genuino, che non può generare accuse di morboso passatismo.

Still you chiude il disco con un beat contagioso, intrecciando una chitarra suggestiva (settata un po’ su Cure e compagnia bella) ed una cascata di tastierine. Il luccichio del sound di Apar, la sua spazialità, sono gli stessi di quel mare ritratto in copertina. I dubbi e i crucci (le croci) le acque li trasportano al largo, li rendono più lievi. È ancora estate, dopotutto.

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