Trasformare chilometri in parole. Una “romantica” chiacchierata con Ryszard Kapuscinski

Ryszard Kapuscinski è stato uno dei più importanti reporter del ‘900. Nato il 4 marzo del 1932 a Pinsk, nella Polonia orientale (poi diventata Bielorussia), ha completato gli studi a Varsavia, e fino al 1981 ha lavorato come corrispondente estero per l’agenzia di stampa polacca PAP. Africa, America Latina, Iran e Unione Sovietica: terre e realtà raccontate con sguardo acuto, in modo colorato e convincente, catturando l’attenzione del lettore e tenendolo in tensione fino all’ultimo punto dei suoi numerosi libri-reportage. Negli anni Ottanta e Novanta si è poi dedicato alla poesia, alla riflessione sul suo lavoro e al ruolo dei giornalisti e degli intellettuali nella nuova era della comunicazione. Le definizioni migliori per descrivere Kapuscinski, ce le ha fornite lui stesso: un missionario che lavorava con sacrificio e passione, un uomo per cui, nella scrittura come nella vita, l’atteggiamento era più importante della precisione; uno sradicato, che ha cominciato a vagabondare a sette anni e ha continuato a viaggiare fino alla fine. Tra i numerosi premi vinti, l’orgoglio forse più grande è stata la candidatura al Nobel, per un giornalismo che non lasciava indifferenti: totale, empatico, vissuto come una missione a servizio dell’uomo, e non dell’informazione. Si è spento il 23 gennaio 2007, a Varsavia. Abbiamo così voluto un po’ “giocare” con Kapuscinski, con la sua figura e con il suo giornalismo, proponendo di seguito una sorta di “intervista virtuale”, immaginando che questo grande personaggio potesse rispondere alle nostre domande. Ci perdonerete, ma la colpa è proprio la sua che, come ha scritto Salman Rushdie, «fa ciò che solo l’arte può fare: dare le ali alla nostra immaginazione».

Kapuscinski, lei è considerato un pioniere e un maestro della “non fiction”, una narrazione non romanzesca, un genere che unisce giornalismo e letteratura. Secondo alcuni lei ha creato un linguaggio nuovo, un suo stile, un ritmo poetico delle frasi e un modo originale di rappresentare gli eventi. Che cosa vuol dire essere reporter, e quale rapporto si instaura con il lettore?

La mia convinzione è che il reporter debba provare tutto sulla propria pelle. Chi fa questo mestiere costituisce forse una delle poche chance, per chi legge, di guardare da vicino terre lontane ed eventi remoti. Il reporter deve mediare, attraverso i propri occhi. Questo però ci dà una responsabilità enorme verso i lettori, che molto spesso non visiteranno mai quei luoghi, senza contare che gli eventi narrati forse non si ripeteranno mai. Il lettore deve quindi affidarsi alle nostre parole, senza avere grossa possibilità di verificare la veridicità delle nostre affermazioni. Per trarre beneficio dai nostri racconti, l’elemento fondamentale è la fiducia verso lo scrittore.

Qui si apre però uno scenario sulla veridicità, e sul valore della verità nei racconti dei reporter

La veridicità è forse il più importante degli obblighi del reporter verso il lettore. Il trattenersi cioè non solo da menzogne e invenzioni, ma anche dal fingere di sapere più di quanto non si sappia. Riproducendo ciò che vediamo, stipuliamo un duplice patto con il lettore: da un lato gli offriamo la “verità più pura della verità” (che deriva dall’esperienza diretta), dall’altro applichiamo l’etichetta del “vero” alle nostre narrazioni, mescoliamo, cioè, l’arte della narrazione agli eventi. Questo però, forse, ci rende più onesti degli storici: non ricerchiamo la verità come imperativo professionale, ma diamo una dimensione più umana e multiforme al racconto. Difficilmente, comunque, troverete un reporter che crede fortemente al valore dell’obiettività. È chiaro però che col nostro lavoro offriamo al lettore un’avventura seducente, sia per il moltiplicarsi delle conoscenze, sia per l’impatto della nostra esperienza diretta, e sia per lo stile narrativo con cui presentiamo gli eventi. A tutto questo va però aggiunto un aspetto importante, e cioè il destino, il tempo in cui lo scrittore o il giornalista vive. Senza passione questo lavoro è inimmaginabile, ma la passione da sola non basterebbe. Nella mia esperienza personale c’è un impegno forte nella politica, amicizie e contatti, una forte percezione dei rapporti umani. Poi ho deciso quale fosse la mia strada, fatta di disgusto per l’inganno e la menzogna, repulsione per ciò che umilia l’uomo negandogli il diritto all’umanità: su questo ho costruito la mia carriera.

Una carriera che lei ha fondato soprattutto sul viaggio, sull’esperienza della partenza, del transito e del ritorno. Esperienza che alcuni considerano quasi una “necessità”, un “richiamo naturale” per chi fa il suo lavoro. Nel maggio del 2011, tra l’altro, Andrea Semplici ha analizzato questo suo rapporto col viaggiare nel libro dal titolo In viaggio con Kapuscinski. Dialogo sull’arte del partire (ed. Terre di Mezzo). Cos’è per lei il viaggio?

Tutta la mia conoscenza ha origine dal viaggio, che è un tipo di esperienza diversa da quella di chi legge, ma anche di un qualsiasi turista o vacanziere. Ogni volta che affronto un viaggio mi lascio guidare dal caso, ma nello stesso tempo sono un uomo meticoloso. Preparo ogni partenza in modo maniacale, leggo una grande quantità di libri. Quello che cerco di far capire nel libro di Semplici, è che se il caso è lo strumento del mio scrivere, il sapere è la bussola. Ne In viaggio con Erodoto [Feltrinelli, 2012 n.d.r.] ho ripercorso le mie vicende come giornalista-viaggiatore, svelando anche qualche retroscena. Ho avuto un’infanzia povera, e appena laureato sono stato mandato allo sbaraglio, come inviato, prima in India e poi in Cina, senza conoscere niente di quei posti. Il mio punto di riferimento erano gli scritti di Erodoto, per me il primo vero viaggiatore della storia, oltre che uno storico. Il suo bisogno di viaggiare, di toccare con mano, di raccogliere dati, paragonarli ed esporli, con tutte le necessarie riserve che è giusto nutrire riguardo alle storie riferite da altri, fa di Erodoto un giornalista a pieno titolo.

A proposito degli inizi della sua carriera, non è più un segreto che, dal ’65 al ’71, lei abbia collaborato con i servizi segreti dell’allora Polonia comunista come agente in Africa e America Latina. Si è parlato di lei come una “spia da Terzo Mondo”. Come è nata quell’esperienza e come si è evoluta?

Nel 1950, a diciotto anni, Stalin era ancora vivo, la Polonia era sotto la sua influenza ed io scrivevo, per Sztandar Mlodych, già articoli tipici di un giovane comunista entusiasta, che di lì a due anni avrebbe chiesto l’iscrizione al Partito. Nel ’56 il giornale mi invia in India, e a 30 anni divento improvvisamente corrispondente in Africa della PAP (Agenzia di Stampa si Stato). Vede, l’Agenzia allora era la voce del Partito, e il Partito era la voce della Polonia, ed era lo Stato che mi dava i mezzi per vivere, per viaggiare e fare il mio lavoro. Quello che mi veniva richiesto era qualche informazione extragiornalistica, e all’epoca non rifiutai. Nel ’65, in Nigeria, il mio nome in codice era “il Poeta”, e dovevo interessarmi delle istituzioni americane in loco, compagnie ed organizzazioni. Due anni dopo fui spedito in America Latina col nome in codice di “Vera Cruz”: lì spiavo giornalisti americani, cellule CIA, FBI e le attività della Germania Federale. Però il mio lavoro di giornalista mi piaceva e non mi dava tregua, e nel ’72 abbandonai il progetto. Io sono stato un comunista, credevo nella sinistra, ma col passare del tempo la mia fede diminuiva, nonostante abbia sempre pensato che il socialismo fosse un sistema migliore del capitalismo. Però ho preferito la carriera da reporter della libertà, appassionato sì, ma leale e indipendente.

Lei è sempre stato molto attaccato al suo Paese d’origine, tanto che molti dei suoi reportage hanno proprio la Polonia come scenario predominante. Alcuni di questi racconti però furono censurati nel suo Paese, quasi a segnare un rapporto a volte conflittuale…

In alcuni di quei lavori raccontavo le condizioni di estrema miseria in cui vivevano gli operai, criticando quindi il socialismo reale. Il mio sguardo era proiettato al futuro, diciamo, tanto che poi nel 1980 ho portato direttamente la mia solidarietà agli operai dei cantieri navali di Danzica, in sciopero. Descrivo bene il mio Paese nel libro Giungla polacca [Feltrinelli, 2009, n.d.r.], in cui mi avvicino alle campagne, ai piccoli villaggi. Ne viene fuori una realtà quasi più esotica di quella del Terzo Mondo, a causa sicuramente della perdita della stabilità comunista. I protagonisti sono gli umili: due vecchie tedesche che fuggono da una casa per anziani e tornano nelle loro terre, uno zatteriere che trasporta legna sul lago, lavoratori che vivono alla giornata e cambiano lavoro di continuo. Però ci sono anche professionisti e gente stimata. Volevo esaminare briciole di esistenza, dettagli di vita quotidiana, rintracciando l’elemento comune: il desiderio di una vita migliore, la ricerca dell’amore e la speranza di cambiare il mondo, di lasciare una traccia di sé contro l’immutata presenza del male.

Nel 1979 lei scrive Shah-in-Shah (pubblicato in Italia per Feltrinelli nel 2009), libro in cui sembra essere il primo a capire l’importanza della rivoluzione iraniana e il primo ad intuire la direzione che la storia stava prendendo.

Forse capii il tragico ritorno, nella storia del Novecento, della componente religiosa come strumento di controllo e di potere. Nel libro racconto fatti, ma li filtro con la mia personalità, perché ero in cerca di risposte. Alterno quindi ricostruzione storico-giornalistica alle tecniche narrative. All’epoca mi chiusi nella mia stanza d’albergo con giornali, ritagli, foto, registrazioni, proprio per ricostruire il quadro degli eventi, le premesse e le probabilità sul futuro. Per cui mi concentro sull’ascesa al potere dello Scià, sulla sua prepotenza dopo le scoperte petrolifere, sul clima di terrore e repressione della polizia e sul rifugiarsi del popolo nelle moschee tra le braccia dei mullah e dell’Islam, unica istituzione in grado di proteggere dalla centralità di Teheran. Questo puzzle è sempre filtrato dalla mia umanità e sensibilità.

Poco tempo fa Feltrinelli ha pubblicato Se tutta l’Africa (I ed. 1969), una raccolta di reportage scritti negli anni Sessanta. Lei ha sempre amato parlare di storia, ed ha anche avuto una formazione da storico. Non a caso nel suo stile si fondono l’efficacia del cronista e il gusto della ricerca sul campo. L’esempio più lampante sono proprio i suoi reportage dall’Africa, da cui trapela quasi la sua speranza che il continente si risollevi.

In questo libro sono contenuti dieci reportage narrativi che scrissi per il settimanale «Polityka», in cui cercavo di raccontare l’Africa in un periodo di grandi cambiamenti. Approfondivo diversi aspetti della realtà, parlavo della nascita di nuovi stati e della fine di sistemi politici. Ho osservato la realtà sul campo, tra la gente comune e le persone famose, rischiando spesso la vita. Ero dalla parte di quel popolo, speravo si risollevasse e si liberasse dal giogo del capitalismo e del colonialismo. Per cui mi appassionavo, ero partecipe. Importante è stato non solo raccontare, ma saper osservare per anticipare i problemi che avrebbero avuto i nuovi stati dopo le lotte di liberazione.

Sull’Africa lei ha scritto poi anche altri libri. Ce ne vuole parlare?

Ancora un giorno [Feltrinelli, 2010, n.d.r.] è uno sguardo sull’Angola, dopo la guerra di liberazione e l’indipendenza del ’75. Pochi sanno che quella guerra durò per anni, e alcuni focolai sono ancora attivi. Oltre alla cronaca delle battaglie e ai fatti politici, raccontavo di un mondo diverso dal nostro. Mi sono trovato intrappolato nell’assedio di Luanda e ho colto l’occasione per descrivere, in tempo di guerra, una “città chiusa” da cui tutti scappavano: portoghesi, gente comune, polizia, perfino i cani. Ne Il Negus [Feltrinelli, 2008, n.d.r.] parlo invece di Ras Tafari, divenuto imperatore d’Etiopia nel 1930 col nome di Hailé Selassié I e deposto con colpo di stato il 2 settembre del ’74. Sono andato ad Addis Abeba per capire cosa fosse quella monarchia assoluta e perché fosse caduta. Ho incontrato i rappresentanti del governo imperiale e ho intervistato servi, cortigiani, funzionari, spie, camerieri, ma anche testimoni di intrighi e ambizioni. Un’immagine del Negus, cresciuto a Cambridge ma fermo nelle sue tradizioni. Un vecchio rabbioso, onnipotente e superbo, ma anche terrorizzato dall’idea di congiure. Ne viene fuori un ritratto un po’ ironico sull’universo grottesco di ogni dispotismo. Con Ebano [Feltrinelli, 2008, n.d.r.], infine, ho cercato di raccontare l’Africa immergendomi completamente in quell’universo, allontanando tappe obbligate, stereotipi e luoghi comuni. Ho abitato tra gli scarafaggi nei sobborghi più poveri, ho preso la malaria cerebrale e rischiato la morte più volte. Vede, l’Africa è uno strano continente: muto per secoli, cominciava a gridare. Era un enigma, un mistero, nessuno sapeva cosa sarebbe successo quando 300 milioni di individui avrebbero drizzato la schiena e chiesto diritto di parola. Sono partito nel ’58 come un giornalista irrequieto, e per 10 anni ho cercato di raccontare e capire lo smarrimento della popolazione, ciò che stava succedendo.

Un po’ come hai fatto in America Latina. Quali differenze hai trovato tra le due realtà?

Ci sono differenze culturali, ma di fondo la situazione era la stessa. Altro continente povero, dove si svolgono guerre povere, come quella scoppiata nel ’69 tra l’Honduras e il Salvador. I piccoli stati del Terzo, Quarto e di tutti gli altri mondi possono sperare di suscitare qualche interesse solo quando decidono di spargere sangue. Triste ma vero. Parlo dell’America Latina in Cristo con il fucile in spalla [Feltrinelli, 2011, n.d.r.], una raccolta di reportage sui movimenti rivoluzionari tra gli anni ’60 e ’70. Il titolo richiama la figura di un sacerdote colombiano vissuto tra i contadini e che, in sottana e col fucile, andò a combattere in un reparto partigiano in Colombia, dove morì. Il tema del libro è proprio il sacrificio, la lotta dell’essere umano per la sua dignità e la figura del ribelle dal grande senso etico.

Possiamo certamente definire il reporter anche come un intermediario nello scontro tra civiltà. Lei è stato uno dei primi giornalisti occidentali a raccontarci di realtà lontane, e il tema dell’incontro con “l’altro” le sta particolarmente a cuore, tanto da avergli dedicato un saggio intitolato, appunto, L’altro (Feltrinelli, 2009). Le chiedo, allora, chi è per lei “l’altro”, e come poterci entrare in contatto senza arrivare al conflitto?

Alcuni hanno definito quel mio saggio come un testamento spirituale, visto anche che l’altro si incontra soprattutto viaggiando e, come il viaggio, anche l’incontro è un’avventura fatta di sforzo, fatica e sacrifici. Il reportage è il luogo letterario dell’incontro con l’altro, perché è il genere più collettivo, che nasce col contributo di persone incontrate sulle strade del mondo, che ci raccontano le loro storie e i loro mondi, o eventi a cui hanno partecipato. Tornando ad Erodoto, egli aveva capito, 2500 anni fa, che per conoscere se stessi bisogna conoscere gli altri: sono lo specchio in cui ci vediamo riflessi, coloro con cui confrontarsi e misurarsi. La xenofobia è la malattia di gente spaventata. Ogni volta che l’uomo si è incontrato con l’altro ha avuto tre possibilità: fargli guerra, isolarsi o dialogare. Levinas diceva: «Fermati, accanto a te c’è un altro uomo. L’incontro è la più importante delle esperienze. Guarda il volto che l’altro ti offre. Attraverso di esso non solo ti trasmette se stesso, ma ti avvicina a Dio. Il volto dell’altro è il libro su cui sta scritto il bene». Abbiamo già iniziato un periodo complesso nelle relazioni tra culture, e credo che la sfida del XXI secolo sia, appunto, l’incontro con l’altro, divenuto quasi inevitabile anche a causa della facilità dei viaggi e delle comunicazioni. Certo, ognuno di noi ha un’identità e ha bisogno di tempo per rimodellarla dopo un contatto con l’altro. Nel giornalismo ci sono state due scuole di pensiero di cui ho conosciuto i rappresentanti: Oriana Fallaci e Tiziano Terzani. Avevano moltissimi punti in comune, ma vedevano il mondo in maniera diversa: il mondo multiculturale descrittoci dalla Fallaci ci metteva paura perché lei non ci si ritrovava, e così pensava che l’unica soluzione fosse la chiusura; Terzani pensava invece che dovessimo completarci a vicenda. Ecco, queste due visioni simboleggiano il dilemma di tutti. A noi spetta di cercare la risposta con le nostre esperienze e la nostra vita.

Vorrei chiudere questa chiacchierata con una considerazione più generale sul giornalismo e sul suo lavoro. Considerazione che, tra l’altro, lei fa nel libro Il cinico non è adatto a questo mestiere (E/O 2011). Il ruolo e le responsabilità degli intellettuali sono cambiate, si pensi solamente al potere di tv ed internet e al rapporto tra verità e potere. Ecco, come si fa ancora a raccontare fame, guerre e povertà? Che rapporto c’è tra realtà e narrazione? Quale spazio per le motivazioni e la passione?

Io penso che i cattivi, i furbetti, i cinici, appunto, non possano essere buoni giornalisti. Manca loro quella umanità profonda che è essenziale per entrare in sintonia con le persone, qualunque sia la loro lingua e cultura, e saperne poi raccontare le storie. Alla base della mia esperienza c’è una grande fiducia negli esseri umani e un profondo interesse per i miei simili. Io non ho l’indole del giornalista stanziale, e pensi che non mi sentivo al sicuro negli alberghi, ma volevo vedere e conoscere tutto di persona, per cui non mi risparmio. Amo mescolarmi alla gente, conoscere le persone e condividere tutto, anche la povertà. A volte sparisco tra le persone, divento uno del posto, e così arrivo al nocciolo degli eventi. Non ho lo spirito del missionario, ma solo così posso stabilire rapporti veri, superando a volte la diffidenza degli altri verso di me. Credo che così si debba vedere il nostro lavoro. Io ho fatto una scelta decisa, che si basa sul sacrificio, sul rischio e sull’esperienza diretta, sulla relazione e la condivisione. Il mio è un agire giornalistico in cui non si smette mai di imparare: il mondo cambia continuamente e noi con lui, per cui dobbiamo essere pronti a raccontarlo in maniera intelligente, realista, scettica, ma anche senza cinismo. Il giornalismo dovrebbe smettere di far contare l’attrazione e “vendere” informazione; dovrebbe diventare “intenzionale”, basato sul raccontare per ottenere qualcosa, capace di dar voce a chi non ne ha, capace di far capire che non si è mai da soli al mondo. La nostra professione è una lotta costante tra il nostro sogno, la nostra volontà di essere del tutto indipendenti e le situazioni reali in cui ci troviamo. E se pensate che questo sia un giornalismo troppo “romantico” per essere vero ed efficace, allora non siete adatti a questo mestiere.

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diDonato Bevilacqua

Proprietario e Direttore editoriale de La Bottega di Hamlin, lettore per passione e per scelta. Dopo una Laurea in Comunicazione Multimediale e un Master in Progettazione ed Organizzazione di eventi culturali, negli ultimi anni ho collaborato con importanti società di informazione e promozione del territorio. Mi occupo di redazione, contenuti e progettazione per Enti, Associazioni ed Organizzazioni, e svolgo attività di Content Manager.