spoon river

Le voci della collina. Edgar Lee Masters e l’Antologia di Spoon River

Lewiston e Petersburg, nei primi anni del Novecento, sono due piccoli villaggi vicino a Springfield, nell’Illinois. La vita scorre tranquilla tra la realtà di campagna e i microcosmi organizzati, lungo i fiumi Sangamon e Spoon. Negli stessi anni Edgar Lee Masters è un avvocato di Chicago, si aggira nei tribunali della zona e frequenta la società di allora fra banchieri, predicatori e gente comune che rappresenta il bene il male nella città come nei villaggi. A pensarci bene la vita di campagna ha fili e tessuti connettivi tali da poter diventare la storia del mondo intero. Masters conserva ancora i sogni di un ragazzo, e tra questi quello di scrivere un libro, una storia in cui rappresentare “il macrocosmo descrivendo il microcosmo”, la vita comune di tanti personaggi immersi nei loro problemi, nelle loro gioie, negli amori e nelle sofferenze. Masters inizia così ad annotare idee, a scrivere piccole poesie sui rovesci delle buste, sui giornali, in tram, al tribunale o al ristorante.

Oltre a sognare Masters legge anche molto, e tra le sue letture preferite c’è Elegia scritta in un cimitero di campagna, di Thomas Gray. Nella mente di Masters inizia così a prendere forma un piccolo paesino, Spoon River, un luogo ideale in cui poter dar voce, in piena libertà, ad una serie di uomini e donne che potessero raccontare la loro vita con semplicità e sincerità. Dalla penna dell’autore nasce pian piano una raccolta poetica che ha dello straordinario, perché i personaggi che parlano negli scritti di Masters sono, in realtà, tutti i defunti di questo villaggio, tutti coloro che ora “dormono sulla collina”. Ora, da morti, non hanno più niente da perdere e possono raccontarci di loro, dei loro segreti, dei loro desideri e sentimenti più nascosti, così come delle più crude verità. Le poesie di Masters sono degli epitaffi, presentati ai lettori come se fossero stati presi dalle lapidi di un cimitero in un piccolo immaginario paesino della provincia americana.

Le prime poesie vengono pubblicate sulla rivista «Mirror di St. Louis» nel 1914, e nell’aprile del 1915 esce il volume Antologia di Spoon River, che raccoglie 244 epitaffi (più La collina), 19 storie che coinvolgono 248 personaggi, che coprono praticamente tutte le categorie e i mestieri umani. In Italia, durante il ventennio fascista, la letteratura americana è osteggiata dal regime, soprattutto se presenta idee libertarie, come nel caso di Masters. La prima edizione italiana è del 9 marzo 1943. È Cesare Pavese che dagli Stati Uniti porta nel nostro Paese le prime opere d’oltreoceano e, una volta in Italia, passa i testi a Fernanda Pivano, desiderosa di conoscere la differenza tra letteratura italiana e americana. I primi libri avuti da Pavese sono però visti dalla Pivano con sospetto, ma con l’Antologia di Spoon River è un vero e proprio colpo di fulmine, e per lei, adolescente cresciuta tra stili poetici fatti di epicità, la semplicità di Masters è una rivelazione. Inizia così a tradurre in gran segreto ogni poesia e, qualche tempo più tardi, è proprio Pavese a convincere Einaudi a pubblicare il libro, evitando la censura facendolo passare per una raccolta di pensieri. La Pivano paga col carcere quelle traduzioni, e anni più tardi dichiara: «Era super proibito quel libro in Italia. Parlava della pace, contro la guerra, contro il capitalismo, contro in generale tutta la carica del convenzionalismo. Era tutto quello che il governo non ci permetteva di pensare […] e mi hanno messa in prigione e sono molto contenta di averlo fatto».

L’Antologia è in effetti un inno alla libertà, una celebrazione della vita personale, di vanti, desideri e peccati di chi non c’è più. L’autore mescola sapientemente la descrizione della vita dell’uomo nella sua semplicità, ad uno spunto di riflessione profonda che ogni lettore è portato a fare in una sorta di dialogo immaginario con i personaggi delle poesie. Come se Masters ci parlasse della vita attraverso la morte, e, grazie alle voci di chi dorme sulla collina, annullasse di colpo la distanza tra la dimensione del reale e quella dell’al di là. Il tutto con una forma in cui l’epica classica è soltanto un lontano ricordo, che lascia il verso ma ignora la rima e il ritmo:

Francis Turner

Non potevo correre o giocare

da ragazzo.

Da uomo non potevo che centellinare,

non bere –

perché la scarlattina mi aveva lasciato il cuore malato.

Eppure giaccio qui

carezzato da un segreto che soltanto Mary conosce:

c’è un giardino d’acacie,

di catalpe, di pergole coperte di viti –

là in quel pomeriggio di giugno

al fianco di Mary –

baciandola coll’anima sulle labbra

l’anima d’improvviso mi è fuggita.

A sfogliare il libro si potrebbe pensare di essere di fronte ad una serie di casi clinici, reietti della società che vivono o sono vissuti ai margini. Ma sta qui la grandezza di Masters: guardare ai morti senza compiacenza, ma con una consapevolezza fraterna del dolore di tutti. Ad ogni personaggio l’autore è come se strappasse una confessione utile non per un sapere scientifico, ma per la sola sete di verità. La poesia si fa racconto, attualità. Ciò che riesce a fare Masters è condensare e plasmare l’intera vita di ognuno in un unico episodio che acquista un significato totale, diventa simbolo di un’esistenza. A volte gioca con l’ironia o la polemica, altre volte scolpisce ritratti di ribellione in anime stanche che non gridano e non scuotono il loro mondo, ma si fanno schiacciare o, da quel mondo, scompaiono.

Masters è un esempio lampante della nuova letteratura americana che pian piano fece breccia anche in Italia: quell’alone di reale che prima era uno sfondo ora si fa luce intensa, e sofferenze e desideri si fanno veri e umani, tratti inevitabili del destino umano. Pavese dichiarò su quest’opera: «Si direbbe che per Lee Masters la morte, la fine del tempo, è l’attimo decisivo che dalla selva dei simboli personali ne ha staccato uno con violenza, e l’ha saldato, inchiodato per sempre all’anima». Ogni personaggio guarda in faccia il proprio destino attraverso il filtro della memoria, e ci regala un gesto, una situazione o una parola che di quel destino è parte e simbolo, perché completamente sua.

Masters non declama la morte e non rende omaggio alla vita, anzi. L’autore scherza con queste due forze, si prende gioco dell’una e dell’altra, grazie alla semplicità della narrazione e all’assenza di rimpianto nella voce dei protagonisti. Ciò che è stato è ormai perso, ora conta solo raccontare, vincere l’intensità di speranze e desideri, di ciò che resta dell’esistenza di ognuno, facendo della soggettività dell’approccio e della lettura la vera chiave vincente di quest’opera. Non esistono risposte definitive, e qualcuno resterà pur sempre fuori dalla soluzione al vivere. La vita, col suo scorrere naturale, ha lasciato solo voci sulla collina; e sono proprio quelle voci ad aggirare la morte, restituendo alla vita la dignità della semplicità e della sincerità.

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diDonato Bevilacqua

Proprietario e Direttore editoriale de La Bottega di Hamlin, lettore per passione e per scelta. Dopo una Laurea in Comunicazione Multimediale e un Master in Progettazione ed Organizzazione di eventi culturali, negli ultimi anni ho collaborato con importanti società di informazione e promozione del territorio. Mi occupo di redazione, contenuti e progettazione per Enti, Associazioni ed Organizzazioni, e svolgo attività di Content Manager.