David Bowie – Lodger

La “trilogia berlinese” di David Bowie è uno dei cliché più classici del rock ed insieme un coacervo di contraddizioni (brillantemente) irrisolte. Low, ad esempio: non tutti sanno che l’esordio del trittico fu in realtà registrato prevalentemente allo Château d’Hérouville, vicino Parigi. Poi c’è “Heroes”: le virgolette del titolo e, più in generale, il clima sinistro, nevrotico, che si respira nelle tracce, tolgono molto a quell’“ottimismo” che la stampa dell’epoca volle vedere nell’album. E infine c’è Lodger, l’atto finale, che è forse il più indecifrabile dei tre.

Anche qui, le session di registrazione si svolsero dappertutto meno che a Berlino (Svizzera e New York, per la precisione). Eno ebbe più spazio che in passato, ma il lavoro suona come il più convenzionale della trilogia – almeno in apparenza: i brani (tutti cantati) ripiegano sulla forma-canzone e, complice un missaggio oscuro, suonano ostici ai limiti dell’inconsistenza. Tuttavia, pur se meno dirompente di Low e “Heroes”, Lodger è comunque un passaggio cruciale nella discografia dell’ex Ziggy Stardust e uno dei più sottovalutati in termini d’influenza su una scena musicale che, in quegli anni, scopriva il gusto della contaminazione esotica.

L’album, infatti, accentua il cosmopolitismo di “Heroes”. E dunque ecco Red sails, che veleggia nel Mar Cinese sospinta dal “motorik dei Neu!, o l’ossessiva African night flight, che, tra pianoforti preparati e canti swahili, inscena l’alienazione degli aviatori tedeschi dissidenti, rifugiatisi a Mombasa durante la Seconda guerra mondiale (Bowie ne incontrò diversi durate un safari nel ‘78).

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O, ancora, gli aromi afro di Red money (un remake di Sister midnight, scritta con Alomar per The idiot di Iggy Pop) e Yassassin, tra inflessioni mediorientali e ritmi in levare, con il testo che riprende (indirettamente) il tema delle tensioni razziali ai danni dei turchi di Berlino, già al centro di Neuköln (su “Heroes”).

Evidente, dunque, l’altro tratto caratteristico di Lodger: la sua attinenza, anche esplicita, con temi di attualità socio-politica. Repetition, ad esempio, parla di violenza domestica, D.J. è una satira della cultura “disco” e della mania per la celebrità e Fantastic voyage riflette sulla corsa agli armamenti nucleari. In quest’ultima, accordi e melodia sono gli stessi di Boys keep swinging, la quale si distingue per il tempo, il tono più magniloquente e l’esperimento di scambiare tutti gli strumenti ai musicisti della band, per ottenere maggiore spontaneità.

Move on, che torna sull’ossessione nomade alla base di tutta la trilogia, e l’inquietante profezia di morte di Look back in anger, completano il quadro di un album densissimo, come sempre problematico, ennesima istantanea di quell’eterno momento di transizione che è l’arte di David Bowie.

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