Errors – Have some faith in magic

Da quattro scozzesi scoperti dai Mogwai e messi subito sotto contratto dalla loro Rock Action ti aspetteresti, come minimo, ritmiche dispari, chitarre iperfuzzose ed impennate epiche. Quello che si chiama abitualmente “post-rock”, insomma. E invece no. Gli Errors, da questo punto di vista, sono creature decisamente meno prevedibili. Sin dal loro esordio, avvenuto con It’s not something but it is like whatever (2008), Simon Ward, Greg Paterson, Stephen Livingstone e James Hamilton si son divertiti a mescolare le carte, fondendo geometrie ed asperità cromatiche degne di Stuart Braithwaite e soci con innervature electro dalle tinte persino danzabili. Un esperimento interessante, nella pratica non così dirompente come avrebbe potuto essere, ma dall’indubbio fascino, che ha fruttato un altro ottimo lavoro (Come down with me, 2010) prima che i quattro decidessero di rinnovare la formula. Rispetto ai predecessori, infatti, Have some faith in magic da un lato riduce sensibilmente la componente elettrica, dall’altro accentua i sapori ipnagogici della loro musica, optando per una sorta di post-chillwave.

Sorrette da impalcature minimaliste, le tracce strizzano inconfondibilmente l’occhio agli anni ’80, da quelli più estatici dei Cocteau Twins (Blank media) a quelli danzerecci di Pet Shop Boys (Pleasure palaces) e Depeche Mode (Cloud chamber). C’è spazio, ovviamente, anche per le chitarre: in Tusk o nella più articolata Magna encarta, ad esempio, le sei corde penetrano come lame nel burro e fendono il grumo di riverberi, iterazioni ed orchestrazioni sintetiche che contraddistingue le partiture. Per non parlare poi di Holus bolus, in cui il debito con i conterranei Mogwai viene a galla prepotentemente proprio grazie alle impennate chitarristiche, le quali si inseriscono in una trama melodica che ha qualcosa degli ultimi Coldplay. Del resto, tutto il disco è così: gioca sul contrasto tra complessità strutturale e immediatezza quasi “pop”, tra impalpabilità e fisicità, tra iterazioni ipnotiche e variazioni armonico/ritmiche. Evocativa e a tratti persino cinematica (The knok), la musica degli Errors si nutre di un nugolo di suggestioni variegate, incastonate in strutture evidentemente lontane da quelle della tradizionale forma-canzone. Basti considerare, ad esempio, Earthscore, che mette in scena una sorta di impasto tra prog e glo-fi, districandosi tra umori esotici ed epicità elettriche e regalandoci quello che, a tutti gli effetti, è il capolavoro del disco. Si diceva del minor spazio riservato alla componente “post”. Ebbene, non si tratta dell’unica differenza rispetto al passato. In Have some faith in magic è importante anche il lavoro delle vocals (praticamente assenti nei primi due album), le quali, sebbene da posizione defilata, intonano salmi di struggente intensità (Barton spring, lenta e maestosa) che evocano talvolta lo spettro degli Animal Collective, contribuendo ad accrescere la gamma cromatica e l’impatto emotivo delle composizioni.

Non siamo difronte, insomma, al tipico album-clone di Neon Indian o Washed Out. L’ultimo lavoro degli scozzesi è piuttosto di un tentativo di reinterpretazione degli stilemi chillwave sotto una luce nuova, in grado di coniugare la raffinatezza dell’intarsio strumentale e la suggestione del sound. Operazione non facile, certo, ma che possiamo dire riuscita. La sensazione, tuttavia, è che il potenziale della band sia ancora sottoutilizzato. Il futuro può riservare grandi cose agli Errors: basta solo “avere fede”…

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