Gary Numan – Dead Son Rising

Dev’essere una brutta cosa non esser presi sul serio. Soprattutto quando, sebbene da una posizione un po’ defilata, si è fatta la storia. Fine anni ’70, Inghilterra, pieno furore new-wave. Gary Anthony James Webb con i suoi Tubeway Army contribuisce a fondare uno dei generi di riferimento del decennio successivo (e non solo): il synth-pop. Tra Kraftwerk, David Bowie e Ultravox, Cars e Are Friends Electric?, i singoli apripista del secondo album della band, “Replicas” (1979), definiscono compiutamente le coordinate di quel sound, un mix di melodia e gelido futurismo. Sciolta la formazione, Numan (il nome d’arte gioca sull’assonanza con “new man”) intraprese una prolificissima carriera solista della quale, in effetti, il frutto migliore rimane il primo lavoro, “The Pleasure Principle” (1979). Spinto dalla smania di accreditarsi come compositore raffinato e non come semplice meteora, il musicista inglese ha poi sfornato una quantità impressionante di LP (17 solo di studio), arricchendo la propria grammatica di influssi jazz e funk ma raggiungendo in modo assai discontinuo risultati degni di nota.

Negli ultimi anni il nostro s’è messo a flirtare con l’industrial. La svolta si è avuta con “Pure” (2000) e col senno di poi possiamo dire che s’è trattato ben altro che d’un capriccio: a dimostrarlo, poco più tardi, “Hybrid” (2003), una doppia antologia in cui il nostro rileggeva i suoi classici alla luce delle scosse elettrosismiche di Trent Reznor, da sempre suo ammiratore (andatevi a cercare la cover di Metal incisa dai Nine Inch Nails). Anche “Dead Son Rising” s’inscrive in questo filone, riproponendo le stesse sonorità claustrofobiche e glaciali che contraddistinguevano anche il suo predecessore, “Jagged” (2006), confermando però anche i limiti dell’intera operazione. Le undici tracce della raccolta suonano per lo più come un’accozzaglia di stereotipi, con le partiture basate sull’alternanza di momenti sospesi ed esplosioni sonore che nell’insieme dovrebbero evocare plumbei scenari post-atomici ma che, invece, suonano come la copia (sbiadita) dell’urlo digitale coniato da Reznor. Big Noise Transmission non ha nulla da offrire al di là di una dinamica spettacolare: il ritornello, arioso, tradisce la debolezza intrinseca della composizione, dissipando l’illusione di ferocia che Numan cerca d’instillare. L’astenia di Dead Sun Rising (battito pesante, coltre di synth granulosi, cantato distaccato) evoca gli incubi orrorifici più patetici del Marilyn Manson versione electro. We Are Lost e The Fall neppure cercano di staccarsi dal copione, puntando la prima su un mantra spettrale che s’innalza su un beat marziale, corretto dai soliti sfrigolii digitali, e la seconda su chitarre manipolate, ritmiche dance e keyboard orchestrali.

Meglio, a questo punto, il minimalismo funereo dell'(anti)inno guerresco di Into Battle, salmodia raggelata giocata su un’intrigante crescendo che stratifica una serie di microeventi sonori per trarne un esperimento magari non originalissimo ma di sicuro impatto, e Not The Love We Dream Of (Piano Version), ballad fluttuante che sembra strizzare l’occhio alle nelle nebbie goticheggianti dei Sisters of Mercy di 1979 epurati, però, dal pathos che li contraddistingueva.

Malgrado questo paio di colpi di reni, “Dead Son Rising” rimane un lavoro mediocre, orchestrato con la dovizia del bravo allievo e dunque altamente impersonale. Un peccato grave per uno che aspirava ai piani alti della storia del rock e forse il segno di un definitivo tramonto.

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