Feist – Metals

Sin dal debutto, l’ottimo Let it die (2004), Feist ha dimostrato di sapersi muovere con rara abilità lungo il confine che separa folk, soul e pop. Il suo songwriting, fatto di pochi, semplici elementi, conquistò all’epoca addetti ai lavori e non grazie ad una vena sentimentale ma mai zuccherosa, retrò ma non passatista, sofisticata ma per nulla snob. Il successivo The reminders (2007) fu una gradevole riconferma, ma è Metals l’album della maturità.

La cantautrice canadese stavolta ha scelto una strada più impervia, fatta di arrangiamenti elaborati e refrain meno immediati. Insomma, se cercate qui una nuova Mushaboom o 1234 (i singoli-traino dei primi due lavori), avete sbagliato indirizzo. Tuttavia, per quanto abbia tratteggiato partiture meno lineari che in passato, la penna di Leslie non ha perso la propria grazia. Affatto. Impeccabile sotto il profilo della scrittura e dell’interpretazione, la musicista si è divertita a sperimentare, ricavandone una manciata di confessioni sempre in bilico tra desiderio di raccoglimento ed improvvise aperture, rese musicalmente con ampi interventi orchestrali o deliqui di ottoni. Probabilmente nella definizione di certe atmosfere hanno giocato un ruolo importante le influenze ambientali: Metals, infatti, è stato registrato con l’aiuto dei fidi produttori Chilly Gonzales e Mocky nei pressi di Big Sur, in uno studio costruito lungo una scogliera. Logico dunque che lo sguardo ne abbia guadagnato in panoramicità e in profondità di campo.

Ad accomunare la metronomica The bad in each other, il folk morbido di Caught a long wind, l’elegiaca Bittersweet melody, la jazzata Anti-pioneer, l’r’n’b di How come you never go e l’alt country di Comfort me è un velo di inquietudine mista a malinconia, come una Cat Power che giochi con i fantasmi di Joni Mitchell. E l’inquietudine si fa palpabile in A commotion: archi minimalisti, battiti ed invocazioni marziali richiamano alla mente PJ Harvey, il cui spettro aleggia anche nel blues scarnificato di The undiscovered first. A rischiarare il paesaggio ci pensano The circle marries the line, serena eppure decisa, e il folk “pànico” di Cicadas & gulls («The land and the sea / Are distant from me / I’m the sky»), il tutto suggellato dalle sfumature tenui di Get it wrong, get it right, illuminata da un pianoforte celestiale.

Metals, in fin dei conti, non inventa nulla di nuovo, ma è comunque l’album migliore di Feist, un piccolo capolavoro d’artigianato d’alta scuola, proabilmente troppo poco ruffiano per piacere anche alle chart.

SOSTIENI LA BOTTEGA

La Bottega di Hamlin è un magazine online libero e la cui fruizione è completamente gratuita. Tuttavia se vuoi dimostrare il tuo apprezzamento, incoraggiare la redazione e aiutarla con i costi di gestione (spese per l'hosting e lo sviluppo del sito, acquisto dei libri da recensire ecc.), puoi fare una donazione, anche micro. Grazie