Tra doom, dark-wave ed ambient: i Canaan

Una conversazione con Mauro Berchi, leader e mente creativa dei Canaan, storica formazione dark-wave italiana che, con “Contro.Luce”, ci ha regalato uno degli album migliori del 2010.

I Canaan si sono formati nel 1995, dopo lo scioglimento dei Ras Algethi, una delle prime formazioni doom italiane. Nel vostro album di debutto, il sorprendente “Blue Fire” (1996), era possibile ritracciare già tutti gli elementi costituitivi del sound della band: una miscela di dark/gothic-wave, ambient e, per l’appunto, doom. Un progetto musicalmente piuttosto innovativo in quegli anni…

Quando decidemmo di porre fine al progetto Ras Algethi, la scelta fu dettata, oltre che dai contrasti interni, proprio dal fatto che ci sentivamo ostacolati dall’appartenenza ad un genere limitato e limitante come il doom. Volevamo provare qualcosa di diverso, e non avremmo mai potuto farlo senza tagliare in modo netto con il passato. Pur con le ingenuità del caso, dovute ad inesperienza e ad altri fattori contingenti, ritengo che “Blue Fire” sia un buon disco, con alcune ottime canzoni e soluzioni di arrangiamenti e strutture piuttosto particolari. Di sicuro, per i tempi era una combinazione inusuale e credo che anche a distanza di anni il disco mantenga inalterato un certo fascino…

Sin dall’esordio, la vostra specialità si dimostrarono essere lunghi brani dall’incedere lento, carichi di un pathos struggente, dalle architetture imponenti, giocate su stratificazioni di suoni elettrici e sintetici. Quali erano i vostri modelli di riferimento? Quando si ascolta la vostra musica, sembra di essere di fronte ad uno strano incrocio tra i Joy Division di “Closer”, i Cure (epoca “Disintegration”), i Lycia, i Death in June e il rock funereo di band come Paradise Lost, Cathedral e My Dying Bride (e dei loro progenitori, i Black Sabbath)…

Non saprei dire cosa abbia influenzato o influenzi il mio/nostro modo di comporre musica. Di certo non i miei ascolti (negli ultimi anni ho ascoltato quasi solo power-noise, dark ambient e musica classica contemporanea). Ai tempi di “Blue Fire” ascoltavamo solo doom, di quello ultra-underground che poi qualcuno si sarebbe ingegnato a chiamare “funeral doom“… Quando però si trattò di comporre, uscirono brani in qualche modo contaminati da altri generi.

Tra l’altro, “Blue Fire” fu un successo: vendette ben 5.000 copie…

Bisogna ricordare il fatto che quindici anni fa era costume acquistare qualche disco, e la piaga del download selvaggio era molto più limitata di quanto sia ora. Le vendite del disco furono comunque clamorose, sopratutto considerando il fatto che era un debutto assoluto e che il nome cominciò a girare contestualmente al disco senza avere prima avuto alcuna promozione; ancora oggi non mi capacito di come sia potuto succedere. Vi fu un notevole passaparola, e molto importante fu anche il massiccio invio di promo che feci per supportare l’uscita. Credo poi che parecchi seguaci dei RAS ALGETHI si avvicinarono a “Blue Fire” convinti di trovarvi una naturale prosecuzione del gruppo precedente: probabilmente rimasero delusi, ma in ogni caso anche questo contribui’ alla diffusione del disco.

I successivi “Walk Into My Open Womb” (1998) e “Brand New Babylon” (2000) consolidarono il vostro sound, perfezionandolo, anche grazie ad una produzione più accurata. Ma fu “A Calling to Weakness” (2002) ad imporsi come il best-seller dei Canaan. Ti sei mai chiesto come mai, soprattutto considerando che si tratta probabilmente del vostro album più disperato?

Sono in molti a ritenere “A Calling to Weakness” il nostro miglior disco. Personalmente non la penso assolutamente così, ma rispetto comunque le opinioni altrui. Dal punto di vista strettamente musicale, l’album era più completo dei precedenti lavori, più “focalizzato”, forse ancora più cupo. Le vendite andarono ancora una volta molto oltre le mie aspettative; fu in realtà l’ultimo disco Canaan a vendere bene (sempre nel limite del genere in questione, chiaro…). Sappiamo bene cosa sia successo dopo – il cambiamento di abitudini, lo scaricamento violento, la crisi, bla bla bla… Con il nuovo disco spero almeno di riuscire a recuperare le spese sostenute per stampa, mix e mastering, cosa che anche con “The Unsaid Words” non si è purtroppo verificata. E che rende – ovvio – difficile proseguire senza incappare in ritardi, problemi, vicissitudini varie. Il fatto che anche in una micro-nicchia come la nostra non si venda praticamente più nulla è un gran brutto segnale.

Un passaggio importante nella vostra carriera è rappresentato dalla collaborazione con Gianni Pedretti (alias Colloquio), con cui avete dato origine ai Neronoia, progetto che ha fruttato due album di notevole spessore quali “Un Mondo in Me” (2006) e soprattutto “Il Rumore delle Cose” (2008), a nostro parere uno degli album (italiani e non) più belli dell’ultimo decennio. Puoi raccontarci qualcosa su come è nata questa collaborazione e sulla genesi dei due LP?

Nel 2006, subito dopo l’uscita di “The Unsaid Words”, il gruppo venne messo per così dire sotto ghiaccio. Una serie di problemi ci impedì di continuare a vederci e suonare insieme, e decisi perciò di spostare la mia attenzione ed i miei impulsi creativi (che per contro non si erano interrotti, anzi…) verso qualcosa d’altro. Con Gianni condivido non solo una profonda amicizia ma una comunione di vedute su molti aspetti della vita, ed è stato per me naturale pensare a lui come compagno ideale in questa nuova avventura. I due dischi sono stati registrati entrambi nel nostro piccolo studiolo, con una formazione ridotta – io, Andrea alla batteria e Alberto al basso, mentre Matteo e Nico hanno in un secondo momento prestato le loro preziose manine sante per parti di chitarra oltre a quelle che avevo registrato io. Con i brani abbozzati e ancora in “cantiere” siamo poi andati giù da Gianni per qualche giorno ed abbiamo completato l’opera registrando le voci. Ritornati a Milano, abbiamo poi ri-registrato il necessario e siamo passati poi alla fase di mix e mastering, svolti per entrambi i dischi con Alessio Camagni al Noise Factory – lo stesso studio usato anche per “Contro.Luce”. Considero Neronoia come un passo molto importante, non solo per il valore dei due dischi (che alla fine non sta a me giudicare) quanto per la notevole esperienza che abbiamo acquisito con il processo di de-costruzione e imbastardimento dei suoni. Elementi molto importanti per caratterizzare il suono anche nel nostro nuovo disco…

E veniamo proprio a “Contro.Luce”. Anche quest’ultimo lavoro (successore di “The Unsaid Words”, 2005) si mantiene, come i precedenti, su standard elevatissimi. Pare che sin dal titolo abbiate voluto sottolineare quella pulsione verso il lato più tenebroso dell’esistenza che da sempre vi contraddistingue…

Ti dirò, credo che tra tutti i dischi che abbiamo fatto, “Contro.Luce” sia il meno cupo e forse il più accessibile. Non è ovviamente un disco “solare” o un ascolto “comodo”, ma si apre spesso anche a scenari mentali meno opprimenti. Nella mia testa ci sono sempre le stesse “bestioline” fastidiose che c’erano anni fa, ma ormai in qualche modo siamo arrivati a convivere in un discreto equilibrio: io le tengo vive ed in salute ed in cambio loro mi lasciano un po’ in pace. Le pulsioni verso il brutto, il fastidioso, il buio non sono affatto svanite, ma sono tenute sotto stretto controllo come cagnoni dai denti aguzzi al guinzaglio dietro le sbarre.

Il disco alterna brani cantati tra dark-wave e doom a strumentali ambient, arricchiti da passaggi esotici. Questo tipo di strutturazione dell’album non è un fatto nuovo per i Canaan. La differenza rispetto al passato è che qui avete deciso di non titolare i pezzi strumentali…

Non sempre sento il bisogno di “etichettare” un brano, di dargli un nome riconoscibile. E poi mi piaceva l’idea che i brani strumentali potessero essere visti come le tappe di un unico viaggio mentale, e come tali fossero in qualche modo intercambiabili.

Come tutti i vostri dischi, anche “Contro.Luce” sembra trasudare una profonda spiritualità, una spiritualità quasi ancestrale…

Se per spiritualità intendiamo un rapporto con il “divino” direi di no, visto che non credo in Dio e penso che la dimensione trascendente non abbia alcun valore. Se invece per spiritualità intendiamo un rapporto profondo con se stessi e con il proprio modo di vedere e sentire le cose, allora assolutamente si. Utilizzo il gruppo come una valvola di sfogo per le mie ansie e pur cercando di rapportarmi a me stesso e a ciò che mi circonda in modo lineare, finisco sempre per impantanarmi in paranoie assortite. Compongo e scrivo di cose che sono molto “intime” e personali e che finiscono per essere – purtroppo – comprensibili a molti, dato che la solitudine e la paura sono sentimenti con i quali ognuno si è confrontato almeno una volta in vita…

A questo proposito, una delle caratteristiche del sound dei Canaan è proprio il contrasto tra magniloquenza e calore. Ci spieghiamo meglio: per quanto maestose e titaniche, le vostre partiture sono percorse da un senso di struggente e disperata malinconia, contrasto, questo che costituisce una parte notevole del fascino dei pezzi…

Concordo con la tua analisi; la malinconia “colora” e rinforza i nostri brani. Personalmente non lo reputo un sentimento negativo; spesso anzi contribuisce a farti vedere le cose sotto una prospettiva differente, creando il giusto equilibrio tra ricordi e rimpianti.

Tra le tracce che compongono il disco, Terrore ed Esitazione sono tra le più riuscite. La prima, con le sue pulsazioni lente, estenuate, immerge l’ascoltatore in un abisso di dolore senza fondo e la seconda, con il suo imponente wall-of-sound di chitarre e synth, rappresenta uno struggente commiato…

Per la prima volta in vita, da che compongo e registro, sono soddisfatto di tutti i brani presenti in un disco e faccio fatica a preferire una canzone a un’altra. Sono molto legato ad Esitazione che ritengo uno dei migliori brani che io abbia mai composto, ma credo che nel disco almeno altri tre brani possano competere con essa, e probabilmente superarla: nella fattispecie, Onore, Ragione e Oblio

Calma, Onore, Noia, Terrore, Ragione, Oblio, Lascivia, Umiltà: sono alcuni dei titoli delle canzoni. Fermo restando il senso di profonda solitudine e la percezione della tragicità dell’esistenza che percorre tutte le liriche, è possibile rintracciare, in “Contro.Luce”, un concept?

Direi di no. Scrivo di quello che sento e di quello che sposta le mie prospettive e influisce sul mio equilibrio mentale. Cerco di scalpellare via pezzetti del mio malessere forse anche per illudermi di mantenere il controllo anziché essere sempre e solo sballottato dagli eventi. Non so se questo sia un concept; di sicuro il mio “mal d’anima” sta dietro ogni nota composta e ad ogni parola scritta a nome Canaan.

A proposito dei testi, in quest’album hai adoperato solo l’italiano, rinunciando, rispetto al passato, all’alternanza tra la nostra lingua e l’inglese…

Dal momento che tutti i testi che avevo scritto a partire dal 2006 erano nati in italiano, mi è sembrato inutile tradurli. La scelta è stata piuttosto naturale, e pur sapendo che gli ascoltatori stranieri avrebbero perso una parte importante del disco come la comprensione dei testi, ho optato lo stesso per mantenere tutto nella nostra lingua. Credo che per “Contro.Luce” sia stata la scelta migliore, anche se già dal prossimo disco torneremo con ogni probabilità ad alternare italiano ed inglese.

Gli strumentali, invece, più che in passato si aprono a contaminazioni esotiche, etniche…

Ho sempre amato molto la musica popolare e gli strumenti etnici, e mi piace provare ad integrarli nelle nostre canzoni. In “Contro.Luce” abbiamo posto molta attenzione alla composizione dei brani etnici, che ricoprono un ruolo molto importante nell’economia del disco. Strano vedere come molti ascoltatori li ritengano invece dei semplici riempitivi. Fortuna per loro, c’è il tasto “skip” sui lettori CD…

Anche quest’ultimo LP è uscito per la Eibon Records, la sua label, che, con la sola parziale eccezione di “Brand New Babylon”, co-prodotto con la Prophecy Productions, non avete mai abbandonato. Una scelta artistica ben precisa?

Ho sempre deciso di auto-promuovermi (Eibon è stato per anni il mio lavoro) perchè voglio avere il controllo di quello che succede sia durante la produzione del disco che durante la fase successiva all’uscita. Abbiamo ricevuto qualche altra offerta nel tempo, ma ho sempre preferito soprassedere, dal momento che non ho pretese di visibilità o di vendite elevate. Preferisco fare le cose con calma, nel mio piccolo “giardinetto” piuttosto che finire triturato negli ingranaggi del “business a tutti i costi”.

Andrete in tour, adesso?

Non abbiamo mai suonato dal vivo, e penso che non lo faremo mai. Non reputiamo necessario portare la nostra musica su un palco, e consideriamo il gruppo come un progetto da studio.

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