Mogwai – Hardcore will never die, but you will

Il sospetto che i Mogwai siano un pizzico sopravvalutati c’è, ed è piuttosto forte. Dopo quel piccolo gioiello che risponde al nome di Young team (1997), i post-rocker scozzesi si sono come smarriti. Dapprima hanno cercato di appropriarsi della forma-canzone tradizionale (Rock action, 2001) ma, delusi, si sono rimangiati tutto e subito (Happy songs for happy people, 2003); di recente hanno tentato di recuperare la forma dei bei tempi (The hawk is hawling, 2008), ma hanno fallito anche lì. Il nuovo Hardcore will never die, but you will soffre dello stesso peccato di manierismo (e conseguente autoindulgenza) dei suoi predecessori. L’abilità di Braithwaithe, Cummings, Aitchison e Bulloch nel creare impalcature grandiose è fuori discussione: quello che manca è, come al solito negli ultimi tempi, la novità, la freschezza.

Sia che giochino con ninne nanne fuzzose (Rano pano) o che si buttino sui chiaroscuri pianistici (Letters to the metro), i Mogwai non scaldano (più) il cuore: le partiture rimangono a mezz’aria, con l’anima strizzata in un completino impeccabile e i tratti sclerotizzati in un’espressione tra il ringhio e l’estasi palesemente fasulla. Il risultato è che dinanzi alla scolasticità del krautrock di Mexican Grand Prix finisci con il rimpiangere persino i Fujiya & Miyagi di Transparent things (2006). Il bello è che la varietà non manca: un basso dark-wave propelle la noisy George Square Thatcher death party, incorniciata da tastiere Eighties, mentre Too raging to cheers si muove tra chamber-rock, math e post-doom. La sensazione, però, è che difetti il carburante per farli volare, questi brani – quello, tanto per rimettere il dito nella piaga, che i quattro non lesinavano ai tempi di Fear Satan.

Ci si può appellare alla sola You’re Lionel Richie (featuring del DJ barese Dr. Kiko, che nel 2008 aveva curato la cover dell’EP Batcat) per dare un senso al disco: l’apertura è slowcore, il finale incendiario, il risultato (finalmente) vibrante. Non basta, però, a chiarire l’annosa questione, ovvero se questi figliocci di Slint e Bardo Pond possano considerarsi davvero all’altezza della fama che li circonda. L’impressione è che il dubbio sia destinato a non esser mai dissipato: se è certo, come è certo, che i tempi di Young team non torneranno, vien da chiedersi in che modo Braithwaithe e i suoi riusciranno a tirarsi fuori dalle secche di uno sterile autocitazionismo che, ad oggi, sembra essere l’unico vero tratto “distintivo” della band.

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