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Intervista a Paolo Zardi: raccontare gli essere umani

Da qualche anno Paolo Zardi si è imposto nel panorama italiano della letteratura, soprattutto per i suoi racconti e per la capacità di raccontare le storie della gente comune. Di recente ha pubblicato per Neo Edizioni la raccolta La gente non esiste. In questa intervista abbiamo parlato di cosa voglia dire, appunto, narrare le singole individualità delle persone, i particolari affascinanti, scegliere tra romanzo e racconto.

Paolo Zardi, sei considerato come uno dei migliori scrittori di racconti contemporanei. Come vivi questa situazione e cosa cerchi di mettere in ogni racconto?
Questa definizione gira da qualche anno – se non ricordo male, il primo a pronunciarla fu Carlo Vanin, in una recensione de “Il giorno che diventammo umani” uscita sul blog di Sugarpulp. A me fa un po’ sorridere. In generale, queste considerazioni andrebbero fatte a bocce ferme, con una prospettiva di più ampio respiro – tipo tra due o trecento anni. Credo che in Italia ci siano diversi ottimi scrittori di racconti – al volo, mi vengono in mente Paolo Cognetti, Elvis Malaj, Elia Gonella, Michele Orti Manara, Gianni Tetti che sono già conosciuti, e altre promesse che sto intercettando nelle riviste, nei blog e nei concorsi, come Sara Gambolati, Rina Camporese, Alessandro Busi, Andrea Siviero, Gaia Gentili. Ciascuno di noi porta il proprio contributo a qualcosa che è un po’ più grande del singolo autore.

Nel tuo ultimo libro, La gente non esiste, affermi appunto che in realtà ad esistere sono gli uomini con le loro singole storie. Spiegaci meglio questa distinzione. E quanto conta al giorno d’oggi conservare la propria storia?
In uno dei saggi raccolti in “Perché scrivere?”, Philip Roth afferma che l’universale è l’argomento di cui si occupano la sociologia e la politica; la letteratura, invece, sofferma la sua attenzione sempre e solo sul particolare. Esistono i pensionati, gli studenti, gli immigrati, i meno abbienti, i piemontesi, gli avvocati; esiste perfino il popolo italiano, un organismo che prende decisioni attraverso il voto. Ma chi scrive, guarda sempre al singolo essere umano, alla sua storia personale, agli eventi che lo mettono alla prova. Gli storici prendono in considerazione la tragedia del popolo ebreo durante la Seconda Guerra Mondiale, con i suoi sei milioni di morti; Spielberg, invece, racconta la storia di quei seicento che si sono salvati grazie alla scelta di Schindler; i politici parlano dell’impressionante macchina da guerra che ha sferrato il suo attacco alla Germania sulle coste della Normandia, e Spielberg, ancora lui, si concentra sulla storia di un manipolo di soldati incaricati di salvare un certo Ryan. I miei racconti e i miei romanzi parlano di eventi che accadono a persone ben precise, delle conseguenze che hanno sulle loro vite. Non mi interessano i tipi comuni – il giovane, il marito tradito, il lavoratore precario – ma esseri umani con un mondo interiore articolato, complesso, vivo. Ciascuno di noi fa parte di diverse categorie, la più ampia delle quali è sicuramente la gente; eppure molti di noi sentono di possedere un’individualità irriducibile, una storia che ci rende diversi da tutti gli altri.

paolo zardiAncora una volta i protagonisti sono persone comuni, storie di vita reale. Cosa ti affascina della quotidianità dei tuoi protagonisti? Come scegli i personaggi delle tue storie?
Hemingway, nella prefazione ai suoi 49 racconti, scriveva: “Andando dove dovete andare, facendo quel che dovete fare, vedendo quel che vi tocca vedere, lo strumento che usate per scrivere si rovina e si smussa. Ma preferisco che sia smussato e dovergli ridare forma e affilarlo di nuovo sulla mola, sapendo di avere qualcosa da scrivere, anziché averlo lucido e brillante e non aver niente da dire, averlo liscio e ben oliato, ma inutilizzato, in un cassetto.” La vita di Hemingway e la sua produzione letteraria sono praticamente la stessa cosa, tanto che quando si rende conto di non avere abbastanza forza per vivere ancora un’avventura degna di finire in suo racconto, si spara un colpo in bocca. Nei suoi racconti, ci sono uomini che stanno morendo ai piedi del Kilimangiaro per una cancrena a una gamba e intanto, conversando con una donna che non amano più, la consolano e la rassicurano sapendo, invece, che è giunta l’ora di morire; e ci sono bambini che, dopo aver assistito al doloroso parto di una donna indiana, devono assistere anche al suicidio del marito, che si è tagliato la gola da una parte all’altra, incapace di sopportare il tormento della persona amata… Per poter raccontare le sue storie, Hemingway era costretto a vivere al limite, tra corride, guerre, battute di caccia grossa, divorzi (quattro) e fucili. Io, invece, mi sento come quel personaggio di un racconto di Woody Allen che va a pesca di tonni con Hemingway e al ritorno dice di averne pescato tre scatolette. La mia vita è quella di un borghese veneto di cinquant’anni: lavoro nell’informatica, sono sposato, ho due figli e due gatti. Non ho mai visto morire nessuno; al massimo, mi sono commosso quando il veterinario ha dovuto sopprimere una gatta che avevo da ragazzo. Non pesco, non caccio, non sono mai stato in guerra. Vivo immerso in una perenne quotidianità – Hemingway non sarebbe sopravvissuto un giorno, al mio posto. Eppure, come lui, sento di avere qualcosa da dire, storie che hanno a che fare con la realtà che sperimento ogni giorno. Anzi, sono quasi convinto che il rumore di certi eventi clamorosi finisca, talvolta, per coprire l’essenza delle cose.

La forma racconto, rispetto al romanzo, sembra fatta su misura per il tuo stile. Perché? Quali differenze ci sono tra i due modi di scrivere e cosa riesci a fare con i racconti che invece non ritrovi nei romanzi?
È una considerazione che sento spesso; una volta, con me c’era anche Francesco Coscioni, uno dei due motori della Neo, che ha fatto gentilmente notare come il mio secondo romanzo, XXI secolo, era arrivato nella dozzina dello Strega. Per rispondere a questa domanda, quindi, dovrei prima di tutto essere d’accordo con l’affermazione; e non sono così sicuro di esserlo. Porgo allora questa piccola provocazione: la composizione più nota di Beethoven è Per Elisa, ma siamo convinti che sia questo il suo risultato più alto? La brevità è, per sua natura, più efficace. La forma “canzone” ha soppiantato qualsiasi altro genere musicale. E via dicendo. Una raccolta di racconti assomiglia a un greatest hits, dove ogni pezzo possiede una compiutezza semplice e facilmente comprensibile; e la molteplicità delle situazioni e dei personaggi che affollano, ad esempio, “Tutti i racconti” di Flannery O’Connor, può stupire il lettore fino a lasciarlo senza fiato. Una raccolta contiene decine di idee sviluppate nel modo più economico ed efficiente possibile; al contrario, un romanzo prende in considerazione un aspetto del mondo ed esegue una sorta di carotaggio, spingendosi fino a profondità estreme, come accade, ad esempio, ne “L’insostenibile leggerezza dell’essere” di Kundera. Una raccolta mostra l’intera tavolozza a disposizione dell’autore, in termini di lingua, ambientazioni, conoscenze, punti di vista; un romanzo, invece, deve essere, per sua stessa natura, una specie di monolite. Ma per quanto mi riguarda, continuo a considerare ogni mio libro come una porzione di un progetto complessivo che richiederà anni per essere portato a termine; e il mio sogno di autore è che i romanzi che scrivo vengano letti anche in relazione agli altri: che il grottesco di “Tutto male finché dura”, ad esempio, è l’evoluzione della lingua di “XXI Secolo” e l’esasperazione di quella visione nichilista, e che lo sguardo impreciso, smemorato, ingannatore e amorale rappresenta l’antitesi de “La Passione secondo Matteo”, e la negazione del suo stesso impianto. In ogni caso, so bene che scrivere un romanzo richiede alcune doti che non possiedo in modo “naturale”. Da sempre, sono attratto dalla costruzione della singola frase, del singolo paragrafo, e questa passione trova la sua piena soddisfazione nella forma breve; con il tempo, però, credo di aver imparato ad apprezzare l’importanza della trama, sulla quale mi sono spesso interrogato, e di aver formulato una mia teoria, in merito. Ora mi rendo conto che le cose che un romanzo ti permette di fare sono al di fuori della portata di un racconto; vale anche il viceversa, ma forse in misura minore.

Paolo Zardi, cosa sono secondo te le persone, se esiste una risposta a questa domanda, e che valore hanno intimità e pensieri che stanno dietro ad ogni storia?
Questa è una domanda alla quale non saprei davvero cosa rispondere…

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diDonato Bevilacqua

Proprietario e Direttore editoriale de La Bottega di Hamlin, lettore per passione e per scelta. Dopo una Laurea in Comunicazione Multimediale e un Master in Progettazione ed Organizzazione di eventi culturali, negli ultimi anni ho collaborato con importanti società di informazione e promozione del territorio. Mi occupo di redazione, contenuti e progettazione per Enti, Associazioni ed Organizzazioni, e svolgo attività di Content Manager.