Cortocircuito d’arte. Da Pollock a Warhol. Due mostre al Vittoriano

Presso gli spazi del Complesso del Vittoriano, a Roma, incontriamo due retrospettive dedicate a due grandi artisti come Jackson Pollock e Andy Warhol, una nazione e due estetiche. Due rivoluzioni dell’arte del Novecento e una città, New York: teatro indiscusso dell’arte contemporanea.  In coincidenza con i novant’anni dalla nascita dell’artista americano della Pop Art, la mostra dedicata ad Andy Warhol è stata inaugurata lo scorso 3 ottobre 2018 e sarà aperta sino al prossimo 3 febbraio 2019.  Essa costituisce una stimolante retrospettiva sulle sue opere e le sue molteplice espressioni creative. L’esibizione viene prodotta e organizzata da Arthemisia in collaborazione con Eugenio Falcioni & Art Motors srl e curata da Matteo Bellenghi.

L’artista indiscusso della Pop Art, nasce a Pittsburgh nel 1928, e diviene  una delle massime icone della cultura americana. Il suo genio assoluto, non solo come pittore, ma anche come scultore, regista, grafico, produttore, attore, scrittore, fotografo ci restituisce una produzione artistica smisurata, consapevole del processo produttivo di massa, della sua riproducibilità tecnica evocata già nel 1936 dal meraviglioso e visionario saggio del filosofo tedesco Walter Benjamin. Una produzione colossale quella di Andy Warhol, che dopo la sua morte raggiunse quotazioni elevatissime e che rimane a tutt’oggi uno degli artisti più venduti al mondo. Lo stesso Warhol scriveva che fare i soldi è un’arte. Lo stile dell’artista americano si racchiude in quel rifiuto per ogni concezione estetica, oltrepassando le norme stesse e allo stesso tempo aderendo alla cultura di massa americana. Dalle bottiglie di Coca-Cola alle scatole della zuppa Campbell fino alle scatole delle pagliette saponate della Brillo Box, simboli di una società del consumo.

Andy Warhol si trasforma in un psicologo e sociologo della contemporaneità. Elementi preconfezionati identici per tutti nell’era l’american way of life. Warhol mette in scena l’inesauribile disponibilità di consumo e l’appiattimento stesso di una società dedita alla moltiplicazione meccanica e alla riproducibilità, una trasfigurazione del banale. Il filosofo americano Arthur Coleman Danto, uno dei maggiori studiosi di Warhol, punta l’attenzione sulla capacità da parte dell’artista di farci vedere il mondo con tutte le sue contraddizioni e i suoi eccessi. Warhol, secondo Danto mette fuori gioco Platone e l’arte perde la sua aura di apparenza o di illusione, acquistando la consapevolezza di essere al mondo. L’arte diviene così l’interrogativo sull’arte stessa, come processo autoriflessivo di una pratica sociale. Passeggiando all’interno della mostra dedicata a Warhol si scopre come che nulla più lega il bello all’arte, legittimando il brutto, il disgustoso e il banale. Diviene celebre anche la Factory, ovvero lo studio ufficiale in cui l’artista americano lavorò ai suoi progetti poliedrici tra il 1962 e il 1968, situato a Manhattan. Fu lo studio, in cui John Cale insieme a Lou Reed diedero vita al gruppo dei Velvet Underground che ricordiamo soprattutto per la copertina del famoso album con la banana sbucciata. Buona parte della ricerca di Warhol volge la sua attenzione al design, alla musica rock, alla grafica, alla fotografia, al cinema sperimentale, il tutto per contribuire a rinnovare uno stile che non è esclusivamente stile artistico, ma  “moda” e cultura popolare. Le tante serigrafie in mostra, da Marilyn a Mao Tse Tung, rivelano un trionfalismo dei colori acidi e della serialità ossessiva dei volti delle star come artifici funzionali ad occultare la drammatica sensazione di inquietudine e distruzione. Gli spazi allestitivi e il percorso della mostra contribuiscono a far riemergere la dimensione psichedelica del clima della Factory, proponendo un’esperienza immersiva.  Lo spettatore incrocia più di 170 opere, dalle più iconiche a quelle più “intime” in un viaggio “pop” dove in quegli anni sembrava tutto possibile. Lo star system viene immortalato da Andy Warhol passando poi ai disegni e tutta una serie di ritratti su polaroid dove vengono raffigurati tutti i più importanti personaggi dell’epoca. Nel pieno della fama e della popolarità, il 22 febbraio del 1987 Warhol muore sotto i ferri di una semplicissima operazione alla cistifellea, lasciando il mondo orfano di un personaggio che in qualche modo ha cambiato il corso della storia. Andy Warhol, il messia indiscusso della trasfigurazione massmediale e mercantile dell’arte, colui che fece esplodere i paradossi dell’idea di opera d’arte in quanto merce ci restituisce una riflessione critica sul consumo di massa. Lo stesso artista che affermava che non si voleva occupare di politica, ma che allo stesso tempo condizionava le masse, svelando una critica profonda del sistema contemporaneo, dove tutti cercano “invano”, quei  15 minuti di celebrità. Warhol ci fa sprofondare nella dimensione della riproduzione, fino a diventare esso stesso una macchina massmediale.

Attraversando il corridoio del complesso del Vittoriano ci si trova catapultati nuovamente a New York, ma questa volta entrando dentro l’autenticità dell’espressionismo astratto, dove il massimo esponente è stato Jackson Pollock. La mostra Pollock e la Scuola di New York  attraverso l’action painting e il color-field oltrepassa la formalità classica del quadro. Del massimo capostipite dell’arte americana troviamo la famosa tela n. 27 e poi si incontra la meraviglia estetica policromatica di Rothko  ed altri autori della scuola newyorchese. Dal 10 ottobre l’Ala Brasini del Vittoriano fino al 24 febbraio raccoglie uno dei nuclei più preziosi della collezione del Whitney Museum di New York.  Pollock, definito da Peggy Guggenheim il più grande genio del Novecento insieme a Picasso, nacque nel 1912 a Cody nel Wyoming, nel pieno di quel mitico West americano. Un’artista dalla vita sicuramente turbolenta e devastata dall’alcol, morto prematuramente a causa di un incidente d’auto, lasciando un’eredità artistica fondamentale. Pollock rivoluzionò davvero la pittura americana, imprimendole un carattere e uno stile unico, che travalicò rapidamente i confini nazionali attraverso l’azione del gocciolamento del colore (dripping). La pittura diviene azione, gesto. L’artista entra con il corpo all’interno della tela poggiata sul pavimento. Proprio la città di New York sarà la culla di molti altri artisti che daranno vita alla cosiddetta Scuola di New York, che oltre a Pollock si inseriscono all’interno Arshile Gorky, Barnett Newman, Adolph Gottlieb, Willem de Kooning, Reinhard, De Kooning e Kline. Il loro carattere di rottura cambiò per sempre le sorti dell’arte contemporanea. Anticonformismo, introspezione psicologica e sperimentazione sono gli ingredienti unici che racchiudono un viaggio all’interno della Scuola di New York, attraverso circa 50 capolavori. La mostra è prodotta e organizzata dal Gruppo Arthemisia in collaborazione con The Whitney Museum of America Art, New York e curata da David Breslin, Carrie Springer con Luca Beatrice.

Se il modernismo è finito con Pollock e con l’Espressionismo Astratto, quale poteva essere il futuro dell’arte? È Warhol a farsi carico della questione: le sue opere rendevano impossibile una linea di demarcazione tra arte e realtà. Perciò, a partire dagli anni Sessanta, il futuro dell’arte coincideva con il superamento di quel confine che ne determinava il distacco dalla vita comune. Jackson Pollock va dritto incontro la morte, mentre Andy Warhol ci gioca fino ad esorcizzarla, ma entrambi condividono e rivelano l’ansia di una contemporaneità senza più confini.

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diGiorgio Cipolletta

Artista e perfomer italiano, studioso di estetica dei nuovi media. Dopo una laurea in Editoria e comunicazione multimediale, nel 2012 ho conseguito un dottorato di ricerca in Teoria dell’Informazione e della Comunicazione. Attualmente sono professore a contratto per corso di Fotografia e nuove tecnologie visuali presso Unimc. La mia prima pubblicazione è una raccolta di poesie “L’ombra che resta dietro di noi”, per la quale ho ricevuto diversi riconoscimenti in Italia. Nel 2014 ho pubblicato il mio primo saggio Passages metrocorporei. Il corpo-dispositivo per un’estetica della transizione, eum, Macerata. Attualmente sono vicepresidente di CrASh e collaboro con diverse testate editoriali italiane e straniere. Amo leggere, cucinare e viaggiare in modo “indisiciplinato” e sempre alla ricerca del dono dell'ubiquità.