Dieci canzoni di Lou Reed

Lou Reed. Se ne andava due anni fa, e non è una semplice frase di circostanza dire che il suo è uno di quei vuoti impossibili da colmare. Nelle sue canzoni, ciniche, elettriche, nevrotiche, c’è un universo: la desolata poesia della New York meno scintillante, quella popolata da drogati, travestiti, prostitute. Gente che un futuro, al di là delle pose punk, non ce l’aveva davvero. Reed, questo microcosmo l’ha cantato con disillusione e insieme grande sensibilità, trasformandola in un’epopea memorabile. Un maestro e un precursore, insomma, a cui, nel giorno dell’anniversario della sua morte (27 ottobre 2013) rendiamo un piccolo omaggio con questa mini-playlist. Ciao Lou.

Walk on the wild side

Il pezzo più celebre di Lou Reed, contenuto nel suo primo, leggendario album solista, Transformer, prodotto dall’amico David Bowie. Walk on the wild side è un concentrato di marciume e degrado metropolitano: droga, prostituzione, sesso orale, travestitismo. Ovviamente nei puritanissimi USA la RCA ne fece uscire una versione censurata.

Satellite of love

Sempre da Transformer, ma il pezzo fu scritto ai tempi dei Velvet Undeground. Il brano fa leva su un’elegante linea di pianoforte, ma è tutt’altro che romantico: al centro c’è l’infedeltà della donna del protagonista («Monday and Tuesday / Wednesday through Thursday / With Harry Mark and John») descritta con cinico disincanto.

Coney Island baby

Uno strumming acustico delicato, una chitarra slide: sono gli ingredienti di questa ballata glam ambientata nel quartiere newyorkese di di Coney Island. Reed racconta la sua infanzia, la sua ossessione per il baseball, la solitudine, l’amore e la morte. Coney Island baby è contenuta nell’omonimo disco del 1976, ed è probabile che il titolo sia un riferimento al brano degli Excellents del 1962 e/o a quello dei Les Appleton del 1924.

Perfect day

Il Lou Reed che non ti aspetti: quello che canta «Oh, it’s such a perfect day / I’m glad I spend it with you” e “you made me forget myself / I thought I was someone else, / someone good». Anche in questo caso, però, l’interpretazione non è scontata: per qualcuno si tratterebbe di un inno all’eroina e alle dipendenze. Il pezzo è contenuto in Transformer, ma divenne un classico solo dopo essere stato inserito nella soundtrack di Trainspotting.

Caroline says II

Da Berlin, il concept album del 1973 che descrive la vita di una coppia di sbandati nella capitale tedesca. Caroline says II è uno dei pezzi più belli del disco, condito da una melodia struggente e da un testo che rende alla perfezione il clima di miseria e squallore in cui vive la protagonista. Curiosità: la canzone è una riscrittura di un pezzo dei Velvet Underground, Stephanie says, pubblicata come outtake solo nel 1985.

I’m waiting for the man

I primi due album dei Velvet Underground sarebbero da citare per intero. I’m waiting for my man è però forse il pezzo che incarna meglio l’anima rock di Lou Reed. Una chitarra sporchissima e tesa, che farà scuola (vedi gli Strokes) e un testo che tratteggia uno scenario metropolitano di ordinaria depravazione: l’”uomo” che attende il narratore è, in realtà, il suo spacciatore…

Dirty blvd

Nel 1989, Lou Reed pubblicò New York, un album duro, scarno, un ritorno al rock and roll più essenziale, quello basso-chitarra-batteria. Tra i pezzi, intrisi di poesia decadente, c’è Dirty boulevard, che racconta di un ragazzino povero e abusato sessualmente, che sogna un impossibile riscatto. Il brano (che finì anche in cima alla classifica dei singoli rock di Billboard) è anche al centro di una memorabile rilettura di Reed con David Bowie in occasione del concerto per i 50 anni del Duca Bianco, nel 1997.

My house

E’ uno dei pezzi meno conosciuti di Lou Reed, da uno dei dischi più sottovalutati. My house apre The blue mask (1982), ed è una delicata ballad in cui il songwriter ricorda Delmore Schwartz, poeta e scrittore, docente di Reed alla Syracuse University, scomparso nel 1967. In verità, è il secondo omaggio di Reed: il primo è European son, uno dei brani più sperimentali dei Velvet Underground. Reed celebrerà il mentore anche più tardi, nel 2012, con un articolo intitolato O Delmore how I miss you, pubblicato sul magazine Poetry.

Street hassle

Una piccola opera rock, tratta dall’omonimo album del 1978. Tre i movimenti: Walzing Matilda, Street hassle e Slipaway. L’arrangiamento mescola orchestra e strumentazione rock, per un brano a base dei temi tipici di Lou Reed: lussuria, morte, bugie, misoginia. All’interno, anche uno spoken word del non accreditato Bruce Springsteen.

Nobody but you

Il primo singolo tratto da Songs for drella, album del 1990 in cui Reed ritrova l’amico John Cale per raccontare con una manciata di splendidi pezzi Andy Warhol, il geniale fondatore della Factory e mentore dei Velvet Underground. Nobody but you sfrutta chitarre e basso per dar vita ad un pattern minimalista, con appena un velo di tastiere “orchestrali” sul finale. Una ballata (all’apparenza) semplice, ma decisamente evocativa.

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