Qualcuno potrebbe anche dire che Aspettando Godot di Samuel Beckett non racconta nulla. In effetti, è la storia di due che aspettano qualcuno, Godot appunto. Ma se diciamo che l’opera appartiene a un genere particolare, quello del teatro dell’Assurdo, allora si riesce anche a trovare un logica in mezzo all’illogico.
Ma cos’è l’Assurdo? È l’incapacità degli uomini di comunicare, di conoscere se stessi e gli altri, imprigionati in una sorta di moto perpetuo e circolare, dove non esistono né inizio né fine. Didi e Gogo sono in attesa di Godot, fermi in the middle of nowhere, su una desolata strada in cui è presente un unico albero. Ad arrivare non è Godot ma un ragazzo, che informa i due che Godot non arriverà quel giorno, ma quello successivo. Didi e Gogo trascorrono il tempo litigando, lamentandosi del freddo e dell’attesa, pensando a mille soluzioni per porre fine a quella condizione, pur non attuandone nessuna.
Pensiamo alla parola “Godot”, che può essere scomposta in “go” (andare) e “dot” (punto), espressione dell’incapacità umana di realizzare un vero movimento in avanti, proteso a qualcosa di davvero concreto e utile alla sua esistenza. L’incomunicabilità non sta solo tra gli individui, ma anche tra di essi e l’azione stessa, perché «fra il dire e il fare c’è di mezzo il mare»: infatti, Didi e Gogo si propongono di abbandonare il luogo, ma il dramma si risolve in un «they do not move».
Beckett è solo uno degli autori legati al genere dell’Assurdo, pensiamo anche a Ionesco o Adamov. “Aspettare Godot” è un modo come un altro per descrivere una situazione di attesa paradossale, quando si cerca un cambiamento senza, però, fare nulla perché questo accada. Beckett scrisse quest’opera negli anni Cinquanta, all’indomani della Seconda guerra mondiale, e quest’impossibilità delle parole di dare un vero senso alla realtà trova un’esplicazione ancora più profonda nella trilogia che inizia con Malone e termina con L’Innominabile (quest’ultimo si conclude con «I can’t go on, I’ll go on», ennesima dicotomia volontà/impotenza).
In quest’ottica, Beckett si discosta dal suo padre artistico, James Joyce, che fortemente influenzò la prima fase della poetica beckettiana. Ma se per Joyce raccontare la realtà è possibile, sviscerando le parole e giungendo così al loro significato più puro, per Beckett questo non è fattibile: tuttavia, quel «I can’t go on, I’ll go on» rappresenta la consapevolezza che non esiste più nulla da dire, ma anche che qualcosa dev’essere comunque detto, pur essendo l’autore conscio di andare incontro a un fallimento. Da qui il suo «ho provato, ho fallito. Non discutere. Fallisci ancora. Fallisci meglio».
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