The War on Drugs – Lost in the dream

C’è una caratteristica che colpisce più di tutte nel nuovo disco dei The War on Drugs: il suono. Lost in the dream ha un sound pazzesco, rifinito alla perfezione, come si faceva una volta, e al tempo stesso con uno scarto rispetto al passato che non lo rende obsoleto, una semplice operazione nostalgica. Adam Granduciel pesca a piene mani dagli anni ’70 e ’80, dall’AOR, da Bruce Springsteen, ma la sua prospettiva è attualizzante, cioè va oltre la banale citazione. Per questo le 10 tracce di questo suo terzo disco suonano così accattivanti: a monte c’è il desiderio (l’ambizione) di ricavare dal mix qualcosa di nuovo.

Come? Prendendo il country rock, il folk, la ballata da FM, e immergendole in un’elettronica di matrice Kraut, new-wave, tra echi e droni. Granduciel, come da titolo di questa sua nuova fatica, ha la testa tra le nuvole e cerca di rendere in tutti i modi (riuscendoci il più delle volte, come nella coda di Under the pressure) l’atmosfera da sogno. Il risultato è un disco esteticamente spiazzante, in cui ti capita di sentire tutto e il contrario di tutto. Proprio Under the pressure, per esempio: potrebbe essere indifferentemente di Tom Petty o dei Cult, perché ha delle salde radici “roots” ma anche un piglio epico-psichedelico perfetto per le grandi arene rock.

In Red eyes, il primo singolo, riecheggia decisamente Springsteen, ma animato da un battito motorik e, in generale, sepolto da una coltre di synth più nebulosa del suo solito. Poi, a completare il trittico iniziale, arriva una morbida ballad come Suffering, con il pianoforte (qui come altrove) in bella evidenza e un tono malinconico che conferma l’impressione di un album personale, se non autobiografico. Disappearing fa leva su un beat marcatamente anni ’80 e su una chitarra incisiva ed atmosferica (alla maniera di un Mark Knopfler): come le sue “colleghe”, si prende il suo tempo (quasi sette minuti), concedendosi lunghi passaggi strumentali.

E se Burning sembra uscita da Born in the U.S.A., le più placide Eyes to the wind e la title-track sfoderano persino qualche inflessione dylaniana. In tutto questo citare, Granduciel riesce a non suonare troppo derivativo (vero è che Burning è tanto springsteeniana…). Il problema, semmai, quello che impedisce a Lost in the dream di essere un gran disco invece, “semplicemente”, di un buon disco, è che le melodie sono un filino esili: se i suoni sono curati alla perfezione e gli arrangiamenti a tratti brillanti, le melodie sono prive di particolari invenzioni.

(Adam Granduciel)

Insomma, come spesso accade quando si gioca a fare il piccolo chimico con gli stili, in Granduciel il desiderio di mescolare la carte e la preoccupazione di farlo come si deve, con coerenza, hanno avuto la meglio sulla sostanza. Lost in the dream non è però un disco bugiardo: diciamo solo che gli manca l’equilibrio giusto. La prossima volta, Adam, la testa magari tra le nuvole, ma i piedi ben piantati a terra.

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