Savages – Silence yourself

Le Savages hanno una colpa colossale, impossibile da perdonare: arrivano fuori tempo massimo, lo sanno, ma fanno finta di nulla. Il rock che propongono in questo album di debutto, Silence yourself, è un concentrato di stereotipi post-punk, dal “gotico angosciato” allo “sciamanico-misticheggiante”. Nient’altro, malgrado i manifesti pubblicati sul loro sito, dichiarazioni d’intenti altisonanti sul rock che riconnette con la parte profonda di sé e libera dagli stereotipi e dalle manipolazioni sociali, destinate a suonare ancor più anacronistiche.

Tutto molto prevedibile, insomma: il quartetto (femminile, guidato dalla vocalist Jehnny Beth) sfoga un’energia abrasiva, nevrotica (Shut up), a tratti persino feroce (Hit me), ma non c’è etica e non c’è responsabilità: le undici tracce sono una sceneggiata estetizzante, “giustificata” da liriche che indulgono ad affreschi di solitudine, abbandono, violenza. Certo, City’s full è dura, incalzante, il basso che pompa oscuro e la chitarra granulosa (capaci di rarefarsi e prorompere con tempi innegabilmente teatrali) sono di un’efficacia che non si ascoltava da tempo, ma la sensazione paradossale è di una replica, inscenata dall’ennesimo campione di una generazione di artisti autoconvintasi che non esista altra grammatica se non quella passata per raccontare con precisione un orrore che, presente, ha salde radici “universali”. Ma la musica delle Savages non è universale: è datata, il che è diverso. Strife, con ancora il basso subdolo e la chitarra che rifinisce in chiave epica il tono sciamanico della melodia, è una b-side apocrifa di un qualsiasi gruppo goth di trenta-quaranta anni fa (Siouxie, per esempio). Stessa cosa per la già citata Hit me, un incubo parossistico un po’ Dead Kennedys un po’ Pere Ubu che almeno risparmia il vittimismo: il fatto che molti l’abbiano letta come una storia di maltrattamenti familiari (quella semmai è Husbands) e non per quello che è, ovvero la cronistoria di un incontro sessuale sadomaso, la dice lunga su una passività ed una superficialità che dalla produzione, eccessivamente appiattita sui cliché usa e getta del supermarket della cultura pop, oggi ha investito anche l’ascolto.

She will, joydivisioniana fino al midollo, giustifica la tesi per cui «coz you have no face», l’accusa che Beth lancia in No face, potrebbe tranquillamente essere rivolta al disco tutto. La commozione di Marshal dear, con il finale con quel sax un po’ Morphine, è forse il momento più sincero della raccolta, certo non il più brillante o originale. Silence yourself, insomma, è pretenzioso e un po’ ipocrita: predica un rinnovamento (spirituale, sociale) in cui esso stesso, per primo, dimostra di non credere e che il ricorso ai più triti stilemi del rock “dark” comunque vanifica in partenza.

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