“Sabotare” la crisi: intervista a Massimo Carlotto

Massimo Carlotto è uno che non ha bisogno di presentazioni. Con una produzione letteraria ricca ed eterogenea (noir, ma anche radiodrammi, piéce teatrali, graphic novel, sceneggiature per cinema e tv), lo scrittore pavese (classe 1956) s’è accreditato come uno tra i nomi più autorevoli nel campo del noir nostrano, spietato ritrattista di un Nordest lontanissimo dagli stereotipi propinati dalla stampa. Tutto questo, unito ad vicenda personale travagliata (nel 1976 fu accusato di un omicidio che non aveva commesso: dopo la fuga e il rientro in Italia, fu graziato nel 1993 dall’allora Presidente Scalfaro) ne fanno indubbiamente un “caso” unico nella nostra scena letteraria. Lo abbiamo contattato via Skype per parlare di alcune sue recenti iniziative – la collana «Sabot/Age» di cui è curatore per Edizioni E/O, la raccolta di racconti Cocaina, assieme ai colleghi Giancarlo De Cataldo e Gianrico Carofiglio (in questi giorni in libreria per Einaudi) e il radiodramma Il giardino di Gaia (pubblicato in cartaceo da Feltrinelli): ne è venuto fuori un viaggio nell’Italia di oggi, in piena crisi culturale, prima ancora che economica e politica, in cui alla letteratura tocca il ruolo di “sabot”, di zoccolo lanciato negli ingranaggi di un potere sclerotizzato e menzognero.

Cominciamo con «Sabot/Age»: già dal nome, che gioca sul doppio binario del “sabotaggio” e dell’“era del sabot” (lo zoccolo che gli operai, durante la Rivoluzione Industriale, lanciavano negli ingranaggi delle macchine in fabbrica quando erano esausti), si evidenzia un elemento di rottura. Non solo in questa collana c’è l’intenzione di raccontare in modo esplicito le storie nascoste dell’Italia contemporanea, ma anche di farlo abbattendo gli steccati tra i generi, affiancando poliziesco, narrativa “bianca”, pulp…

Per molti anni sono stato convinto del fatto che il noir fosse l’unico strumento per raccontare la realtà in modo dirompente, ovvero per raccontare l’“altra” realtà, quella che non ci viene mai mostrata. Poi, col tempo, ho riflettuto sul fatto che la società è così complessa che occorre far intervenire tutti i generi letterari a raccontare quello che sta accadendo. È, questo, il passaggio da una “letteratura della crisi” – perché il noir è stato il genere che più di altri ha saputo raccontare e persino anticipare la crisi – ad una “letteratura del conflitto”, in grado cioè di raccontare il conflitto non solo politico, economico o sociale, ma direi anche antropologico che la crisi ha scatenato agendo in profondità nella nostra società. Ovviamente, per far questo il noir da solo non bastava più. Per «Sabot/Age», ad esempio, abbiamo pubblicato un romanzo “bianchissimo” come Non passare per il sangue, di Eduardo Savarese, che affronta i temi dell’omosessualità, delle relazioni, dell’identità, e che col noir non c’entra nulla. Il libro, però, è importante anche perché è la prima volta, in Italia, che un magistrato fa outing attraverso uno strumento letterario e questo, in un mondo assolutamente grigio come quello dei palazzi di giustizia, per noi ha rappresentato una grande forma di “sabotaggio” sociale…

Questa “letteratura del conflitto” è fondamentale per giungere, poi, a quella che, in un intervento sul «Manifesto», lei ha chiamato “redenzione”, ovvero la liberazione dalla bugia, dalla menzogna. Tuttavia, quest’idea del conflitto come valore non ha molti sostenitori nei salotti televisivi, in cui spesso, anzi, l’invito è a moderare i toni, a smussare le divergenze, mentre invece di conflitto ne avremmo bisogno…

Assolutamente. Il conflitto è un momento necessario, perché senza conflitto non solo non si supera la crisi, ma non si costruisce il futuro. In questo momento, in una situazione stagnante, di “morte” delle idee, in cui nessuno sembra cioè avere la più pallida idea di come venir fuori dal pantano generalizzato, il conflitto è necessario proprio come momento di costruzione.

Anche nella sua fase più esplicitamente noir, la sua è sempre stata una letteratura “politica”, pur in senso lato, che ha raccontato squarci inediti per esempio del Nordest e rovesciato un po’ di luoghi comuni sul Belpaese. Adesso, però, mi pare di capire, si tratta di fare un passo ulteriore e di “evolvere” anche il romanzo italiano di genere, che forse negli ultimi tempi ha sonnecchiato un po’…

Non credo che la letteratura di genere italiana sia rimasta statica in questi anni. Credo, semmai, che ci sia una profonda spaccatura nel mondo letterario, con una maggioranza di autori che crede fermamente in una funzione consolatoria del romanzo. In questi libri, i buoni vincono sempre e la società è vista sotto una luce positiva – il che, però, a me pare una visione falsamente positiva. Non è solo un problema della letteratura di genere, in effetti – e comunque la mia non è una critica, perché poi questi romanzi li leggo anche molto volentieri. Mi limito a constatare che questa dimensione consolatoria è oggi preponderante, malgrado la crisi. Accanto a questi autori, però, ce ne sono altri che, come me, scelgono invece una dimensione “conflittuale”. Siamo in minoranza, come dicevo, ed è anche per questo che è nata «Sabot/Age»: come un porto sicuro per quegli autori che rifiutano una visione consolatoria. Alcuni di loro, tra l’altro, hanno scelto espressamente di scrivere per noi, come Riccardi con il suo Undercover. «Sabot/Age», quindi, vuole avere anche una funzione aggregante: attraverso il tema del “conflitto”, vogliamo tracciare una mappa non solo di questo Paese, ma anche degli autori.

Il fatto che, anche in un contesto drammatico come quello che stiamo vivendo, l’idea del conflitto sia allontanata, scacciata, mi fa pensare che forse questa crisi non l’abbiamo ancora maturata…

Più che altro, il mondo letterario non l’ha maturata. C’è indubbiamente un ritardo, rispetto anche, ad esempio, al teatro: la scena letteraria (italiana in primis) fatica ad orientarsi, a fare delle scelte. È una difficoltà cronica, ormai, si trascina da anni e coinvolge soprattutto la narrativa “bianca”: dopo che gli autori si sono raccontati, dopo che hanno messo nero su bianco le loro angosce, i loro travagli interiori, tutto questo è diventato insufficiente per soddisfare la sete dei lettori, il loro desiderio di capire il mondo. Il fatto che la letteratura di genere sia maggioritaria nel nostro mercato è un’anomalia, perché dovrebbe esserci un equilibrio con quella “bianca”: lo squilibro significa proprio che non c’è più riconoscimento per quest’ultima. La crisi, però, ha anche un’eco europea: in Francia, dove le librerie non chiudono e l’editoria non è in crisi, le Cinquanta sfumature [la saga erotica sadomaso dell’inglese E. L. James, pubblicata in Italia da Mondadori, n.d.r.] sono saldamente in testa alle classifiche di vendita. Anche questo è un segnale da non sottovalutare…

Questa necessità di capire la realtà attraverso la letteratura di genere sembra anche figlia della crisi del reportage, dell’inchiesta giornalistica e, in generale, il prodotto di un modello di racconto della cronaca (in primis televisivo) che spettacolarizza e specula sugli aspetti più turpi delle vicende…

Sì, da un sacco di anni c’è una macchina mediatica che funziona molto bene nel raccontarci un certo tipo di crimine. È vero che il nostro è il paese in cui ci si ammazza di più in famiglia, ma è anche vero che raccontare questo tipo di storie non ha una valenza collettiva. Interessandosene, i media (in particolare la tv) hanno recuperato gli elementi del giallo letterario, un genere che in passato ha avuto grande successo perché aveva assorbito la proiezione dell’ansia rispetto alla propria morte, che poi è diventata una proiezione dell’ansia in generale. Guardare in tv questo tipo di delitti significa dunque “scaricare” le proprie tensioni, ed oggi la società è sempre più ansiogena. Il problema è che, dall’altra parte, si è completamente abbandonato il racconto della criminalità organizzata, che ormai non si accontenta più di avere un ruolo subalterno, ma vuole contare e quindi ha relazioni sempre più forti con l’imprenditoria, la finanza, la politica. Parlare di queste cose è ovviamente difficile; e quando anche lo si fa, lo si fa sempre al passato, quando ormai sono scattate le manette, c’è stato il blitz o il processo. Questa memoria della criminalità, però, non ha nessun significato, perché quel meccanismo criminale è morto e sepolto e non ci sarà mai più, e soprattutto non si racconta il legame tra criminalità e territorio: quello lo devi raccontare prima, come facevano certi giornalisti che sono stati ammazzati (penso a Siani e a tanti altri). Bisogna tornare a raccontare la criminalità in questo modo, ma è difficile farlo se i giornalisti non sono protetti: da tempo (io dico dal “caso Cederna”) sono soggetti al ricatto della querela per diffamazione, praticamente un arma per farli tacere. Quindi, se uno rischia, oggi rischia più che mai da solo…

«Sabot/Age» è stata inaugurata il 26 agosto del 2011, e sinora sono stati pubblicati sei libri…

A marzo ne usciranno altri due: un pulp, Regina nera (il seguito de La ballata di Mila di Matteo Strukul), con uno spunto investigativo molto interessante, e il romanzo del catanese Massimo Maugeri, Trinacria park, che, ambientato in Sicilia, è una sorta di riflessione attraverso il romanzo sulla menzogna e l’uso della menzogna nel nostro paese.

L’ha stupita la qualità dei testi che, in veste di curatore della collana, s’è trovato ad esaminare?

In un certo senso sì. Abitualmente siamo sommersi di manoscritti, che sottoponiamo a tre letture incrociate: spesso arrivano storie molto belle ma scritte in modo non impeccabile, diciamo così. È che c’è in giro un livello culturale per cui c’è una sorta di medietà della scrittura, però poi trovare il guizzo giusto, la scrittura letteraria di un certo livello, è un’altra cosa, più complicata. Gli autori tendono a dare per scontato alcune cose e questo è pericoloso, perché in un momento del genere si dovrebbe invece sperimentare. Chiaramente, anche in questo c’entra molto l’influenza del linguaggio televisivo e giornalistico, sempre più piatti…

A proposito di nuove uscite: parliamo di Cocaina, una raccolta di tre racconti (gli altri sono di Carofiglio e De Cataldo), che è arrivata in libreria in questi giorni per Einaudi. Anche in questo caso c’è un aggancio con la realtà molto forte: il suo racconto è ambientato nel Nordest, c’è una figura di ispettore un po’ ribelle e un gruppo di trafficanti improvvisati. Tra l’altro, lo stesso tema del traffico di cocaina, e di stupefacenti in generale, è estremamente attuale, perché in questi anni di crisi il consumo è aumentato…

L’idea alla base del libro è stata di Giancarlo De Cataldo: io ho aderito subito molto volentieri, perché mi ha dato la possibilità di fare una riflessione che volevo fare da tempo, assieme ai lettori, e cioè che l’uso di cocaina è differenziato a seconda dello strato sociale. Parlo, ad esempio, delle donne delle imprese di pulizie, che poi sono anche casalinghe, con degli orari pazzeschi e una giornata che non finisce mai, o dei padroncini del mondo dei tir, una realtà durissima anche questa. In generale, negli strati più bassi, la cocaina è diventata una droga consolatoria: a fronte di una vita di merda, dà l’illusione di un sollievo, di una fuga. Ma la fuga è una cosa complicata. Tant’è che a Padova, ad esempio, è tornata in auge l’eroina: ma non quella da sniffare, quella da buco. E di tossici da buco non se ne vedevano da trent’anni, cioè (e non a caso) dagli anni ’70 – ’80. L’eroina, insomma, è la droga del conflitto – la droga dei perdenti del conflitto. E così ho scritto questo racconto, puntando su questa serie di riflessioni. Carofiglio e De Cataldo, invece, si sono mossi in una direzione diversa: più intimista per il primo, che ha raccontato gli effetti della cocaina nelle relazioni personali, più “internazionale” per il secondo…

Il racconto di Cocaina è ambientato in una zona che lei conosce bene, il Nordest: in questi anni di crisi, com’è cambiato rispetto a quello che ha raccontato in passato?

Da un punto di vista economico, è sempre la zona d’Italia più ricca e dunque quella che regge meglio la crisi, però a prezzi enormi. Penso, ad esempio, a tutti quei lavoratori extracomunitari che, utili e dunque fatti stanziare in una certa fase, sono stati poi cacciati non appena le cose hanno cominciato a girare male – con tutto quello che ciò comporta anche in termini di assetto sociale. Il problema è quello dell’identità: se ne parla molto, ma questo territorio la sta perdendo, in nome del salvataggio di un modello economico che, per anni, si è retto su forme d’illegalità molto forti, dal lavoro nero all’evasione sistematica delle imposte, al traffico illegale di rifiuti tossici. Si è affermata così una cultura dell’illegalità, dove l’illegalità non è però solo quella delle organizzazioni criminali, ma anche quella diffusa di gente che socialmente non avrebbe alcun bisogno di delinquere, e se pratica certe forme di illegalità, anche larvate, è perché fanno ormai parte della cultura dominante, quella del più furbo. Nel lavoro d’inchiesta che ho fatto per scrivere il racconto di Cocaina, ho notato che la maggior parte degli arrestati per traffico di stupefacenti è incensurata. Intorno ai grandi gruppi di criminali, si raduna una manovalanza di delinquenti non abituali, gente viene fuori dal circuito di produzione, socialmente inserita, con buoni livelli di scolarità. Il che a me sembra indicare un peggioramento delle condizioni di vita, non materiali ma complessive, di un territorio. Inoltre, non c’è nessun ricambio politico, sono sempre gli stessi a comandare. Io, ad esempio, dopo Alla fine di un giorno noioso [pubblicato nel 2011, sempre da E/O, n.d.r.] mi sono allontanato: ho scritto Respiro corto [2012, Einaudi, n.d.r.] in giro per il mondo, perché qui non cambia nulla. È una situazione statica, e quando una situazione è statica vuol dire che in realtà peggiora…

 

Questa staticità, questa mancanza di ricambio nella classe politica, questa cultura dell’illegalità, mi fanno venire in mente il ventennio berlusconiano: volevo capire, il Nordest ci crede ancora in Berlusconi (e nella Lega sua alleata) oppure un eventuale voto nei suoi confronti sarebbe dettato dalla disperazione?

La Lega qui non ha subito i contraccolpi lombardi [i recenti scandali che hanno coinvolto la giunga Formigoni, n.d.r.]: anche l’asse politico con il PDL è sano, come se non fosse successo nulla. Per le prossime elezioni, hanno ripresentato le stese persone, ovvero gli avvocati di Berlusconi, Galan e via discorrendo. Padova, per esempio: è una città in cui governa (e anche bene) il centrosinistra, però poi fai venti chilometri e ti trovi in paesi dove la Lega ha il 70%. Questo farà si che, alla fine, la destra si attesterà nel Nordest a un 38%. E non è cambiato nulla neppure nella spartizione delle poltrone: i leghisti, incapaci di gestire il potere a livelli alti, si sono occupati dei settori più periferici, mentre il grosso degli affari in regione (per esempio, le “grandi opere”) è rimasto saldamente nelle mani di quelli che c’erano prima, del PDL.

Torniamo alla letteratura, e alle sue ultime uscite. Mi ha colpito l’operazione alla base de Il giadino di Gaia, in origine un radiodramma nato per “AutoreVole” di Fonderia Mercury, adattato da Sergio Ferrentino. Un genere un po’ desueto, ma che però lei ha frequentato più volte [nel 2004, ad esempio, con Radio Bellablù, scritto con Carlo Lucarelli e lo stesso Ferrentino, n.d.r.]. Cos’è che l’attrae di questo formato?

Il radiodramma ti permette di raccontare storie che sarebbero difficilmente raccontabili, dal punto di vista narrativo, con lo strumento romanzo. È un genere molto veloce e anche abbastanza complicato, però avevo voglia di raccontare gli effetti della crisi del conflitto nelle relazioni tra le persone, cioè il fatto che la gente oggi non si separa perché non ha i soldi per farlo. Se ci pensa, non è una cosa da poco, perché determina il sorgere, nelle famiglie, di un coacervo di tensioni che fanno sì che la gente campi malissimo. Quindi Il giardino di Gaia secondo me è questo: la rappresentazione di una situazione, fatta di bugie, mondi paralleli e necessità di sopravvivenza, che oggi una parte della società vive. Il radiodramma è uno strumento di grande impatto. Tra l’altro, mi è piaciuta molto la scelta di Feltrinelli di pubblicare il racconto assieme all’adattamento radiofonico: mi sembra che renda il prodotto ancor più equilibrato e soprattutto che consenta al lettore di entrare meglio nella storia.

Per concludere, crede che la letteratura, alla fine, possa darci quella “redenzione” di cui parlavamo prima, anche in un periodo difficile come questo?

Da sola sicuramente no. Da sola può avere il ruolo che le attribuiva Pavese: una difesa contro le offese della vita.

Una funzione un po’ passiva…

Non ne sono certo, sa? Io credo che il compito degli autori sia attraversare il proprio tempo occupandosene. Il che significa dire delle cose ben precise: certo, fai delle scelte, scegli cosa scrivere e cosa non scrivere, ma è logico che se decidi di parlare di determinate cose, lo fai perché pensi di concorrere ad un cambiamento più vasto. Bisogna però avere sempre la consapevolezza e l’umiltà di comprendere che la letteratura da sola non può risolvere nulla. Come dicevo prima, da anni è cambiato l’atteggiamento dei lettori rispetto alla letteratura di genere: da una parte permane sempre un uso “classico”, dall’altro però s’affacciato un uso nuovo, più “strumentale”. Quello che c’è nei libri la gente lo adopera come strumento per potersi muovere dalla consapevolezza all’agire. È un uso diverso, che non dipende tanto dagli autori, quanto piuttosto proprio dai lettori: sono loro che hanno fatto questo salto di qualità. Il che, ovviamente, è un segnale incoraggiante.

Qui sotto, Carlotto presenta lo scorso dicembre a Roma, a «Più libri, più liberi», la collana «Sabot/Age»:

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