Gabriele Salvatores – Puerto Escondido

«Come hai fatto a portare la pistola in banca?», chiede Mario Tozzi (Diego Abatantuono) all’uomo che, in un’altra vita, gli ha sparato. «È una pistola speciale – replica il commissario Viola (Renato Carpentieri) -, di porcellana. La fabbrica la stessa ditta che fa i metal detector». Ecco, è da questo mondo che fuggono i protagonisti di Puerto Escondido, un mondo che si muove come una scheggia impazzita, in cui tutti arraffano denaro e corrono e non si sa dove vanno – perché non vanno, in realtà, da nessuna parte. Ci vuole una piccola complicazione in un’esistenza altrimenti tranquillamente borghese a spingere Mario al largo. Impiegato di banca milanese, un giorno assiste ad un omicidio ad opera di Viola: questi, vistosi in pericolo, lo scova e gli spara, ma Mario sopravvive. Uscito dall’ospedale, la situazione peggiora: Tozzi si trova un altro cadavere tra i piedi (quello di un improvvido collega del commissario), e le prospettive future sembrano pessime. Così scappa. Se ne va in Messico, a Puerto Escondido. Qui trova una coppia di sbandati, Alex (Claudio Bisio) e Anita (Valeria Golino), anch’essi fuggiaschi, ma per ragioni più “esistenziali”. Alex, ad esempio, lavorava in Svizzera, faceva gli Swatch: dopo un po’, s’è rotto le scatole e ha preso a vagare da un continente all’altro. Anita è la sua ragazza: insieme rubacchiano, trafficano in paccottiglia pop (jukebox, videogame: «il Messico – dice lei – è una delle pattumiere degli Stati Uniti»), spacciano. I tre mettono in piedi una società, ma non sono tagliati per gli affari: si fanno rubare da una banda di bambini una borsa piena di fumo da rivendere, e quando tentano di rapinare uno «stronzo sfruttatore di campesinos capitalista» (alias il marito di Anita), va pure peggio. La polizia li bracca, e Alex finisce in galera. Mario vuole liberarlo, assieme ad Anita coinvolge anche Viola e l’impresa quasi riesce. Quasi.

Ideale prosecuzione della “trilogia della fuga” (Marrakech express, Turné e Mediterraneo), Puerto Escondido, se da un lato ne condensa i temi (smarrimento, voglia d’evasione, amicizia virile), dall’altro se ne distanzia nei toni, stavolta più marcatamente tendenti alla commedia. La grana è grossa, insomma, la sceneggiatura (tratta dal libro di Pino Cacucci) zoppica, l’equilibrio del film è precario – esattamente come quello dei suoi personaggi. «La vita è come un ponte: attraversala pure, ma non pensare di costruirci sopra la tua casa», recita un detto su un cartello a casa di Alex: ecco, qui Salvatores il suo ponte l’attraversa, ma quasi senza guardarsi intorno, confondendo concisione e sciatteria. Alla fine, di questa fuga rimane solo il passo veloce, e poco altro.

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