Twin Shadow – Confess

Niente da fare: Twin Shadow con le copertine non ci prende proprio. Quella del debut (Forget, 2010) appariva amatoriale nella sua sovrapposizione di increspature acquose, volto in primissimo piano e titolo cubitale; addirittura peggio fa la cover di Confess, che ritrae il nostro in posa da ribelle senza causa anni ’50, quasi una (involontaria) parodia a metà tra il machismo di Springsteen e l’omoerotismo evocato dal “folletto” Prince. La musica, per fortuna, è di ben altra pasta. Eccellente, e nient’affatto goffa, un bell’incastro di r’n’b passionale e grinta new-wave anni ’80. Pop da cuori infranti e però diretto, quasi rabbioso, animato da una sincera urgenza espressiva. Rispetto all’esordio, infatti, tanto il sound quanto le liriche risultano più vigorose, robuste, a cercare di nascondere una fragilità che nemmeno la posa della copertina può mascherare del tutto. George Lewis Jr. ha visto la morte in faccia, e questo farebbe riflettere chiunque: un incidente occorso circa 24 mesi fa, mentre era in sella alla sua moto con un amico, l’ha costretto ad un profondo riesame di sé e dei suoi legami. Due anni passati a fare poco più che guidare, quelli trascorsi da Forget, che hanno consentito a Lewis di mettere ordine nella propria testa e di ridefinire i confini di una poetica che altrimenti rischiava di rimanere impiccata ai toni soffusi dell’esordio.


Le sfumature di nero la fanno ancora da padrone, ovviamente, ma le improvvise aperture melodiche schiariscono l’orizzonte, stabilendo come filo conduttore dell’LP una miscela di dolce e amaro, malinconia ed estasi. La club-music di Golden light, ad esempio, sfrutta abilmente i cliché del genere, stratificando beat massicci e synth minacciosi, che nel refrain assecondano una vena epica. Il canovaccio è lo stesso in Run my heart, la quale, per altro, strizza l’occhio a Springsteen, rivelando come le fonti di Confess siano, se non più numerose, comunque diverse da quelle alla base di Forget. Emblematica della svolta è la febbrile Five seconds, che con battito metronomico, fraseggio atmosferico di tastiere, basso pulsante e schitarrate hard-rock sembra un mix tra Take my breath away e il Billy Idol di Rebel yell. E sempre l’ex Generation X è il riferimento per When the movie’s over, sorta di Eyes without a face riletta con un tocco di glamour à la Brian Ferry. La credibilità di Lewis è tale da riuscire a maneggiare persino Boy George (The one) senza scadere nel ridicolo. Più colta, invece, la radice di Beg for the night, un ballabile atmosferico intriso di funky che nel ritornello sembra tutto Paul Buchanan era A walk across the rooftop. Il sound, possente ma non ridondante (l’LP è prodotto dallo stesso Lewis), esalta i tanto i passaggi più serrati quanto i momenti drammatici: riprova ne è il crescendo di I don’t care, contesa tra intensità soul e sensibilità melodica coldplayana, un po’ come i One Republic di Apologize remixati da Timbaland, ma nettamente più intelligente.

Se Confess ad un primo impatto suona meno convincente di Forget è semplicemente perché sceglie la strada di una maggior schiettezza, svolgendo la consueta tensione introspettiva di Lewis in forme a tratti più ruvide. La qualità è però fuori discussione, così come l’equilibrio nell’orchestrazione complessiva, la sagacia negli accostamenti. L’unico rischio che corre Twin Shadow gli deriva dal gusto citazionista, in alcuni casi troppo esplicito: Forget si salva dall’essere un mero ABC del perfetto pop-waver “solo” in virtù di una scrittura brillante e di una sincera necessità espressiva. Meglio però non tirare troppo la corda.

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