Emanuel Carnevali – Corteo di personaggi a Villa Rubazziana

Emanuel Carnevali è uno di quelli che la vita l’ha attraversata bruciato sul serio dal sacro fuoco dell’arte. Per il fiorentino, nato il 4 dicembre 1897 ed emigrato giovanissimo negli USA, dove divenne una figura chiave del Modernismo letterario, frequentazioni poco raccomandabili (prostitute, teppisti) e vizi pericolosi costituivano il pane quotidiano, tappe di un percorso forsennato verso l’autodistruzione. Che, puntualmente, si presentò, sotto forma di una terribile malattia nervosa, l’encefalite letargica, la quale costrinse lo scrittore, nel 1922, a tornare definitivamente in Italia e a ricoverarsi nella bolognese Villa Baruzziana.

Quegli anni da ammalato sono raccontati da Carnevali in questo libello, pubblicato postumo come la maggior parte della sua produzione. Non è casuale la scelta del titolo: nelle trentasei pagine sfilano, come per l’appunto in un corteo, una serie di personaggi ritratti con una vena tra il grottesco e il malinconico. La prosa di Carnevali scorre leggera, veloce e raffinata, e fissa sulla carta con pochi tratti figure di dottori e pazienti, intenti in una “danza della morte” (Totentanz) simile a quelle dipinte da Bosch. Salta il confine tra sanità e malattia: i “normali” non sono dissimili da coloro che vengono additati come infermi. Il «ridicolo» Nothrills, il fascista Arches, la signora Thigs, il marchese squattrinato Dumbs, il pigro dottor Kingpeels, le male assortite signorine Gonelow, il «filosofo ubriaco» Fireplaces: tutte maschere di quel carro allegorico che è Villa Baruzziana (ribattezzata dall’autore “Rubazziana”), ciascuna con una sua storia a base di felicità (piccole) e infelicità (grandi). La compassione per il comune destino di sofferenza affiora qua e là, sempre discreta: come rileva correttamente Francesco Cappellini nella postfazione al volume, non è fuori luogo un parallelo tra lo sguardo di Carnevali e quello di Diane Arbus, la fotografa dei freak.

Emanuel non si scrollò mai di dosso l’alito della Morte, che l’accompagnava sin dalla giovinezza: sostenuto (talvolta anche economicamente) dagli amici Ezra Pound, Robert McAlmon e Kay Boyle, si spense nel 1942, in ospedale, soffocato da un boccone di pane. Una fine beffarda per uno che la vita l’aveva sempre presa a morsi, ma tant’è. A noi restano un pugno di poesie memorabili, qualche racconto, un’autobiografia (Il primo Dio, edita da Adelphi) e questo delizioso diario, col suo memorabile “corteo di personaggi”…

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