«Giovanni Falcone e Paolo Borsellino non sono eroi. E non volevano essere eroi. Erano e volevano essere servitori dello Stato». Le ultime parole di Falcone e Borsellino è un libro bellissimo, direi quasi necessario per la nostra conoscenza (e coscienza, individuale e nazionale). I due magistrati sono l’eccezione a quella che dovrebbe essere una regola per gli uomini di legge, ossia essere sempre al servizio della giustizia. La raccolta di interventi, interviste e analisi, a cura di Antonella Mascali, testimonia, invece, le numerose difficoltà incontrate nella lotta alla mafia, ostacolata non solo dalla criminalità organizzata, ma soprattutto dai colleghi e dagli esponenti del mondo politico: non per niente, si parla di “omicidio mediatico” di Falcone, addirittura accusato dal “corvo” di collaborare con una parte dell’organizzazione mafiosa, in particolare, di aver spedito a Palermo il pentito Salvatore Contorno, con licenza di uccidere gli avversari dello schieramento corleonese. Centinaia di esperti avvocati hanno esaminato gli atti dei processi di Falcone, senza trovare traccia di anomalie che confermassero tali accuse.
Il 26 settembre del ’91 venne trasmessa una puntata speciale di Samarcanda (talk show di Rai 3, in onda dal ’87 al ’92, condotto da Michele Santoro), in contemporanea con il Maurizio Costanzo Show, dedicata all’imprenditore Libero Grassi, ucciso dalla mafia il 29 agosto di quell’anno. Quella sera, oltre allo show personale di Totò Cuffaro (che attualmente sta scontando una pena a Rebibbia per favoreggiamento aggravato a Cosa nostra e rivelazione di segreto istruttorio), a Giovanni Falcone venne criticata la presenza a Roma, in qualità di direttore generale degli Affari penali del Ministero di Grazia e Giustizia. La polemica fu di Alfredo Galasso, avvocato di parte civile al maxiprocesso del 1986-1987 a Cosa nostra.
Era un momento difficile: la vicinanza a Claudio Martelli comportò per Falcone attacchi (noto quello di Leoluca Orlando) e non poche amarezze, tanto da affermare, prima di lasciare il suo incarico di giudice istruttore e procuratore aggiunto della Repubblica a Palermo, «è penoso quello che ho dovuto ascoltare nei corridoi di questo palazzo, constatare che, tranne pochi, tutti sono contenti per il fatto che me ne sto andando». Eppure, proprio il tanto criticato trasferimento a Roma, permise a Falcone di portare la sua esperienza e le sue idee laddove le leggi venivano fatte e approvate: fra le altre cose, non dimentichiamo che all’indomani della strage di Capaci fu introdotto con decreto legge 8/6/92 n. 306 (poi legge 7/8/92 n. 356), un secondo comma all’articolo 41-bis, che prevedeva l’applicazione di un duro regime carcerario ai detenuti per reati di criminalità organizzata e terrorismo (l’articolo 41-bis della Legge Gozzini dell’86 riguardava, invece, solo situazioni di rivolta o emergenze particolari). Falcone fu quasi costretto ad accettare l’incarico a Roma, in quanto isolato a Palermo, messo nelle condizioni di non poter fare liberamente il proprio lavoro e indagare sui possibili rapporti tra i servizi segreti deviati e la mafia. Lo stesso trattamento fu riservato a Paolo Borsellino, al quale fu a lungo impedito di interrogare il pentito Gaspare Mutolo che, dopo l’omicidio di Falcone, si dichiarò disponibile a collaborare.
Durante la Lezione su mafia e legalità a Bassano del Grappa il 26 gennaio 1989, rivolto a uno studente, Borsellino affermò: «No, io non mi sento protetto dallo Stato». Alla moglie confiderà: «C’è una trattativa tra la mafia e lo Stato, dopo la strage di Capaci […]. La mafia mi ucciderà quando altri lo consentiranno». Il 30 luglio 1988, Borsellino denunciò pubblicamente sui quotidiani La Repubblica e L’Unità la fine del pool antimafia di Palermo, e per questo venne messo sotto inchiesta dal Csm che, sei mesi prima, aveva bocciato la candidatura di Falcone (in seguito alle dimissioni di Antonino Caponnetto) a capo dell’Ufficio istruzione di Palermo, preferendo Antonino Meli. Borsellino non fu sanzionato dal Csm, ma il pool antimafia venne comunque sciolto. Due mesi prima del fatidico 19 luglio, il magistrato evidenziò in un’intervista a Canal Plus i rapporti tra la mafia e l’ambiente industriale milanese, con particolare riferimento alle indagini su Vittorio Mangano e Marcello Dell’Utri.
Due uomini soli, Falcone e Borsellino: a vent’anni dalle stragi di Capaci e via d’Amelio è doveroso fare un passo indietro e ricordare il loro percorso professionale e umano, tra ostacoli, calunnie e omertà. In Le ultime parole di Falcone e Borsellino è possibile ritrovare le lezioni di moralità e giustizia dei due magistrati: da una parte le analisi di Falcone, dall’altra gli interventi e le ultime interviste del collega Borsellino, che aiutano soprattutto i giovani a riscoprire e comprendere le basi etiche di scelte coraggiose e necessarie, e l’impegno portato avanti sino alle estreme conseguenze («siamo uomini morti che camminano»). Se il sacrificio di Falcone e Borsellino ha di certo comportato una riflessione più profonda e un atteggiamento diverso da parte della collettività verso la criminalità organizzata (soprattutto a Palermo, dove la lotta all’illegalità si è fatta più decisa), è anche chiaro che lo stretto rapporto tra mafia e Stato continua a esistere e ad avere ripercussioni sui cittadini, che non possono identificarsi in un sistema istituzionale credibile, limpido e coerente. Il libro, arricchito dalla prefazione di Roberto Scarpinato, ci ricorda che a uccidere Falcone e Borsellino non è stata solo la mafia, ma, in primo luogo, l’indifferenza, l’invidia e la corruzione di uno Stato che non si presenta al popolo «con la faccia pulita».