Alice Cooper – Welcome 2 My Nightmare

Spesso, e non a torto, si giudicano con molte perplessità quei progetti che nascono con il chiaro intento di fornire una prosecuzione ad un’idea già felicemente esplorata in precedenza. Accade magari nell’industria cinematografica, quando, sfruttando il successo e le qualità di un determinato prodotto, si decide di crearne quasi immediatamente un secondo atto, un sequel, sperando di bissare i consensi (e gli incassi) del predecessore. Con le dovute differenze del caso, si potrebbe trasferire questa breve considerazione al contesto musicale, segnatamente all’attività di Alice Cooper. L’istrionico rocker americano ha deciso di lasciar passare ben trentasette anni prima di dare un seguito al famigerato concept-album “Welcome To My Nightmare”, un’opera maestosa, dall’impianto narrativo sensazionale, sospesa tra hard-rock, reminiscenze cinematografiche (grazie anche all’ospitata della star del cinema Vincent Price) e una suspense narrativa degna del migliore cinema horror. Sostanzialmente, un album meraviglioso, che ancora oggi testimonia una delle più ispirate e compiute manifestazioni del genio visivo ed estetico del musicista e performer americano.

A distanza di tanti anni, gli ingredienti, anche solo teorici, per un ritorno francamente discutibile c’erano tutti. Le ritrosie e le perplessità di partenza erano poi accresciute dal fatto che Cooper (all’anagrafe Vincent Damon Furnier) nell’ultimo decennio ha sfoderato sì album di discreta qualità, ma nessuno con i guizzi degni del passato (fatta eccezione, forse, per “Along Came a Spider”, licenziato nel 2008). Il sessantatreenne musicista di Detroit, insomma, sembrava essersi pienamente istituzionalizzato all’interno di una routine produttivo-industriale nella quale, come in una catena di montaggio, era dedito sfornare album a ripetizione, confezionati, prodotti e lanciati sul mercato con il solo pretesto di avere una manciata di nuovo materiale da proporre ai concerti (quelli sì rimasti nel tempo davvero straordinari) nei lunghi tour in giro per il pianeta.

Questo “Welcome 2 My Nightmare” è un progetto dignitoso, stilisticamente eclettico ma mai confusionario, un carnevale horror piacevole all’ascolto. Quattordici canzoni nelle quali Cooper, oltre a riconfermare in cabina di regia il vecchio producer Bob Ezrin (figura storica della scena musicale contemporanea, produttore di molti altri artisti, da Lou Reed ai Kiss) e ad avvalersi del fidato amico-compositore Desmond Child, rispolvera in alcuni brani la storica formazione che lo affiancò nella primo capitolo, ovvero Denis Dunaway, Michael Bruce e Neal Smith. Le composizioni sono per lo più contraddistinte da un piglio Seventies, ad iniziare dal singolo I’ll Bit Your Face Off, in puro stile Rolling Stones, mentre altri episodi come Caffeine, A Runway Train e When Hell Comes Home riescono a traghettare il sound verso un adrenalinico hard-rock fortemente levigato da una produzione in grande stile. Una lode particolare la merita anche la bella apertura, affidata a I Am Made Of You, che si pone in evidenza grazie a un’atmosfera intensa, sorretta da un piano in stile Goblin e dal crescendo chitarristico che finisce per abbracciare la voce del bandleader, al massimo della sua espressività.

Tutto bene, dunque? Non proprio. Perché i buoni propositi e lo scanzonato divertimento di questi passaggi finiscono per essere del tutto assenti nella seconda parte dell’album, dove si condensano, purtroppo, numeri di dubbia consistenza compositiva, come il quasi inascoltabile easy-rock di Ghouls Gone Wild, l’intreccio di elettronica e rock di What Baby Wants (pessima l’idea di ospitare la starlette pop Ke$ha al microfono) o l’esperimento beatlesiano della ballad Something To Remember; brutta anche la chiusura, affidata a The Underture, una sorta di collage strumentale di stampo operistico che funge da ponte tra i due album. Si tratta di pezzi talmente poco felici che, sfortunatamente, finiscono per pesare molto sulla credibilità complessiva del progetto.

In definitiva, “Welcome 2 My Nightmare”, nonostante una cornice classica e l’innegabile vena divertita e divertente che lo percorre, risulta troppo “professionale” e poco istintivo. Dov’è finita l’attitudine old-school grazie alla quale fioccavano meraviglie del calibro di School’s Out (1972), I’m Eighteen e Poison? Con meno ossessione per la forma e più sostanza, questo sarebbe stato un ritorno con i fiocchi.

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