J. J. Abrams – Super 8

Sebbene sia tra gli autori di una delle serie televisive di maggior successo di sempre (Lost, autentica pietra miliare del piccolo schermo), J. J. Abrams non è mai stato quel che si dice un genio della macchina da presa. Le sue precedenti prove cinematografiche (tra queste, l’esordio di Armageddon, Mission: impossible 3, Star Trek) magari avevano rimpinzato le pance degli Studios, ma certo non avevano entusiasmato per originalità e brillantezza. Giocattoloni spettacolari, all’insegna di un mix di effetti speciali, azione e romanticherie buoni per una serata disimpegnata, ma non certo per la “hall of fame” della settima arte.

Super 8 è l’ulteriore dimostrazione di come non necessariamente un bravo scrittore tv si dimostri egualmente talentuoso nel passaggio al grande schermo. Nel 1979, un gruppo di adolescenti, durante la realizzazione di un film amatoriale (girato in super 8, per l’appunto), assistono ad un misterioso incidente ferroviario, dopo il quale la vita della loro piccola comunità non sarà più la stessa: sparizioni di oggetti, cani che fuggono impazziti, omicidi, rapimenti. Ma se lo spunto di partenza non è male, il problema è il suo sviluppo. Incrociando Steven Spielberg (anche produttore della pellicola) e Stephen King, fautori di un immaginario sci-fi/horror impregnato di suggestioni fiabesche e poesia adolescenziale, con il Romero de La città verrà distrutta all’alba e il Romeo e Giulietta di Shakespeare, Abrams ha costruito un film formalmente impeccabile, ma assai banale, prevedibile.

Attraverso la vicenda di Joe e dei suoi amici, appassionati di b-movie a base di zombi, vampiri ed altre terribili creature, il regista costituisce una sorta di omaggio ad un cinema piccolo, fatto di trucchi da due soldi, trame abbozzate e tanta ingenuità. Omaggio che, tuttavia, s’ingloba all’interno di uno spettacolo grandioso, a base di esplosioni, demolizioni, inseguimenti e sparatorie, reso possibile da un apparato produttivo ipertecnologico che non s’accontenta di un po’ di cerone e rossetto, o di una vecchia cinepresa con pellicola. La frizione che si crea tra i due piani ha del paradossale: nell’insieme, è un po’ come se Abrams stesso, dopo qualche minuto di sogno ad occhi aperti, si costringesse (e ci costringesse) a fare i conti con l’amara realtà. E cioè che l’adolescenza è finita, e l’innocenza perduta per sempre: gli Studios hanno vinto, ed ET si è trasformato in una creatura à la Alien, che rapisce e divora (sebbene al momento opportuno non manchi di mostrare pietà).

Gli adulti di Super 8 non ci piacciono: distanti, cinici o rosi dai demoni di un senso di colpa inestirpabile, si contrappongono nettamente agli adolescenti, teneri, fragili, sensibili, empatici. Il patetico dispiegamento di mezzi del colonnello Narc non potrà nulla contro la forza e la determinazione della creatura che decenni orsono atterrò sul nostro pianeta: alla fine, l’extraterrestre riuscirà a ripartire verso lontanissime galassie, lasciando tutti gli abitanti sbigottiti. E lo spettatore più solo: perché con lui se ne vola via (l’illusione di) un residuo di umanità “filmica”. Certo, Joe e Charles termineranno il loro lungometraggio, e forse vinceranno il concorso al quale hanno in mente di partecipare: ma la sensazione è che, dopo, sforneranno blockbuster.

Abrams insomma intona un requiem dell’era delle “weird tales” e della magia di quel mondo di carta un po’ bizzarro e un po’ ridicolo, ricorrendo però agli stessi strumenti che quel mondo hanno seppellito. Il suo romanzo di formazione travestito da fantascientifico è un gingillo multimiliardario senz’anima e senza cuore, infarcito di situazioni stereotipe e di trovate che non scaldano il cuore.

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