Duncan Jones – Source code

«Cosa faresti se ti restasse un minuto da vivere?». A porsi il drammatico quesito è il capitano Colter Stevens, un tempo di stanza in Afghanistan, ora impegnato in una missione assai delicata: salvare le vite dei passeggeri di un treno in procinto di esplodere e smascherare il pericoloso attentatore, che ha in animo di far saltare in aria, con un ordigno nucleare, il centro di Chicago. Il guaio, però, è che Stevens ha a disposizione solo otto minuti. Se a questo aggiungiamo che egli, in effetti, non si trova fisicamente sul convoglio, ma rinchiuso all’interno di una capsula situata in una stazione militare, allora si comprende quanto la missione sia, in effetti, “speciale”. Colter riesce infatti a raggiungere il treno grazie al “codice sorgente”, un complesso sistema software che “carica” nel suo nel cervello gli ultimi istanti di vita di uno dei passeggeri dello sfortunato treno, in effetti già esploso quella mattina. Tutto (ma proprio tutto…) ciò che Stevens si trova dinanzi agli occhi, insomma, non è “reale”.

Come nel sorprendente debutto di Moon (2009), anche in Source code Duncan Jones s’interroga sul senso profondo della vita, sul significato dell’esistere, sulla coscienza, sul simulacro. Ma se per il predecessore i modelli erano Kubrick (2001: Odissea nello spazio) e soprattutto Tarkovskij (Solaris), qui fanno capolino Philip Dick e il Christopher Nolan di Inception. Mescolando abilmente fantascienza e thriller, il regista (figlio di David Bowie) ha confezionato un film in grado di coniugare spettacolarità da blockbuster e riflessione filosofica, senza dimenticare un tocco “politico”. Coulter, nei suoi molteplici tentativi di sventare l’attentato, “muore” più volte, ed è impossibile non ricollegare la meccanicità di questi decessi alla carneficina della moderna “guerra al terrore”. Come il povero Sam Rockwell ed i suoi cloni in Moon, anche il capitano è ostaggio di una corporazione (quella militare) che, supportata da una scienza priva di qualsivoglia limite deontologico, si mostra in tutto il suo cinismo. L’America, insomma, non ha pietà neppure per i suoi figli morti in battaglia, per i suoi eroi.

Qui il combattente per la patria ha il volto bello e sofferto di Jake Gyllenhaal, bravissimo come sempre. La missione, per lui, si rivelerà anche un modo per sanare certe ferite familiari (il legame col padre) e riscoprire il gusto per la bellezza delle piccole cose quotidiane, quelle che, sotto il peso di tante, troppe preoccupazioni futili, spesso ci sfuggono.

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