David O. Russell – The fighter

Quello dello sport come metafora della vita è un cliché cinematografico tipicamente hollywoodiano. Quando poi l'”industria” deve raccontare storie di esistenze ai margini che si riscattano dalla loro mediocrità grazie a mirabolanti imprese atletiche, finisce sempre con il ricorrere al pugilato. Che, si sa, vende anche bene: alzi la mano chi, in vita sua, non ha visto almeno una volta Rocky (I, II, III o l’ultimo, non importa) e non s’è appassionato o addirittura commosso di fronte alle gesta di Sylvester Stallone, malconcio residuato del proletariato urbano che, a suon di cazzotti, assurge al rango di mito. C’è qualcosa di irresistibile in queste storie, qualcosa che ci conquista indipendentemente dalla ricchezza dei plot (la saga di Balboa non è certo paragonabile a Million dollar baby di Clint Eastwood) e ci rende osservatori partecipi di parabole di ascesa e caduta e poi ancora risalita, anche se, nella maggior parte dei casi, il gioco (filmico) è noto e arcinoto.

The fighter di David O. Russell non sfugge alla regola. Il film racconta la vicenda (vera) di Micky Ward, pugile americano d’origine irlandese, campione del mondo nel 2000 dei pesi leggeri, e del suo complicato rapporto con il fratellastro, Dicky Eklund, ex boxeur caduto in disgrazia a causa del vizio del crack. Nel delineare il percorso di formazione dei due, David O’Russell mette in scena un microcosmo di solitudine e squallore urbano (lo sfondo è Lowell, Massachussets, uno dei distretti storici della Rivoluzione industriale USA), di rapporti familiari squilibrati (la madre-manager tirannica), di redenzione e riscatto – anche attraverso l’amore, quello di Mickey per Charlene. Tutto, insomma, è orchestrato secondo la migliore tradizione hollywoodiana, con tanto di abbraccio finale liberatorio che scioglie le tensioni e ricompone le fratture.

Al “combattente” O’Russell, insomma, è mancato (cinematograficamente parlando) un po’ di coraggio: un bel paradosso per un inno al “Sogno americano” quale è il suo film, non c’è che dire. Lo tiene a galla un solido mestiere, una sceneggiatura ben architettata e la buona interpretazione del cast, sul quale svetta un istrionico Christian Bale nei panni di Dicky: per l’attore americano, un Oscar meritatissimo e un bel personaggio, lontano dal consueto stereotipo del sex-symbol, da mettere nel curriculum.

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