Pieralberto Valli, la rivolta silenziosa di un “santo barbaro”

Pieralberto Valli, titolare del progetto Santo Barbaro, è uno dei songwriter più interessanti emersi in Italia nel corso degli ultimi anni. A distanza di pochi mesi l’uno dall’altro, abbiamo avuto modo di ascoltare Mare morto (il debutto, in origine autoprodotto nel 2008 e ristampato da Ribéss) e Lorna: più acustico il primo, ma senza disdegnare indie e post-rock, più elettronico/elettrico il secondo. Quello che trovate qui sotto è il resoconto di una chiacchierata con Valli: si parla di musica, progioni mentali, futuro, letteratura, il tutto con un senso etico e una profondità poetica difficili da riscontrare oggi.

Cominciamo dal principio. La prima pubblicazione di Mare morto, il tuo esordio discografico, risale al 2008 e fu un’autoproduzione. A distanza di un paio di anni, quelli di Ribéss Records hanno ristampato l’album. Puoi raccontarci come sono nati i contatti con quest’importante realtà nel panorama della discografia indipendente italiana?

La storia del mio rapporto con Giulio [Accettulli, NdR] e con la Ribéss si può riassumere in un aneddoto. Giulio mi scrive e ci diamo appuntamento in una serata di maggio. Parliamo di tutto fuorché di contratti, postille e cavilli. Continuiamo a bere per diverse ore, le figure attorno al nostro tavolo si fanno sempre più sfocate, sempre più simili a suoni piuttosto che a corpi. Ci salutiamo e nel farlo ci ricordiamo del motivo per cui ci eravamo dati appuntamento. Giulio tira fuori dalla tasca un pacchetto di sigarette, ne strappa un pezzo e me lo porge. «Firma», mi dice. «Ma non c’è scritto niente?» «Non importa, ci siamo capiti». Quello è e rimane il contratto.

Mare morto era arricchito da una raccolta di racconti, Un giorno passo e ti libero. Non solo: con la band collaborano anche artisti di varia provenienza come Francesco Fantini, fotografo e videoartista, Alessandro degli Angioli, illustratore, grafico e musicista degli (am) e Claudio Ballestracci, che curerà la parte grafica del nuovo disco. Dunque un approccio indiscutibilmente multimediale, che sembra essere parte integrante della natura stessa del progetto Santo Barbaro…

Sicuramente sì. Ognuno aggiunge un proprio squarcio alla visione globale e, nel farlo, sposta l’asse del progetto, lo devia dal cammino iniziale. Mi piace pensare al gruppo come a un luogo, come a un punto di transito. A quest’ultimo disco ha partecipato Claudio Ballestracci e, in un certo senso, attraverso le sue opere ha reso più chiara anche a me l’idea stessa dell’album. Io avevo descritto Lorna, l’avevo immaginata, ma solo quando ho visto le sue prime bozze ho capito quali fossero i suoi contorni, come si adagiasse sulla realtà e ne facesse parte.

Oltre che per la multimedialità, mi pare che Mare morto si caratterizzasse anche per un certo sincretismo compositivo: nelle tracce del disco era possibile rintracciare influenze disparate, che andavano da De André ai Marlene Kunz, da Capossela ai Radiohead, passando per i CSI. E uno dei miracoli di quell’album stava proprio nell’aver trovato un giusto equilibrio tra tutti questi sapori (apparentemente) così diversi, coniando un sound estremamente compatto e personale…

Per me è molto difficile parlare dei lavori passati. È come se, attraverso la registrazione, mi liberassi di un peso, come se non volessi avere niente a che fare con me stesso. Questo mi aiuta a pensare sempre al disco successivo, al passo seguente. “Mare Morto” è stato un disco molto istintivo, poco provato, a differenza di Lorna che invece ha avuto un percorso più labirintico. In due anni sono giunto almeno tre volte alla convinzione di avere l’album pronto, e per tre volte l’ho distrutto per ripartire dalle fondamenta. Si tratta di trovare un’instabilità equilibrata, un’irrequietezza feconda. Devo riconoscere che in questo ha avuto un ruolo centrale Franco Naddei (Francobeat).

Da questo punto di vista, Lorna arricchisce il sound di elementi di novità: in particolare, più elettronica e chitarre elettriche. Da cosa nasce questa svolta, se così vogliamo chiamarla?

Con Mare morto volevo imprimere una foto sul presente. Era l’immagine di un viaggiatore che sbarcava sulle coste del nostro mondo. Si concentrava soprattutto sul tema dell’immigrazione, sul confine, sull’idea fasulla e reazionaria di termini come razza o stato. E per descrivere quest’immagine di terra e sale era necessario usare il suono puro e stridente delle corde, del pianoforte, del contrabbasso. Lorna, invece, vuole provare a immaginare mondi inesistenti, e l’utopia è elettrica, è un fascio di luce che abbaglia e scompare. Traspare una sorta di nostalgia di futuro, come ha scritto Sergio Segio nell’introduzione all’album. Anche nei testi emergono molti riferimenti al passato, e non è un caso che la traccia di apertura si schiuda durante il colpo di stato in Uruguay. Quaranta anni fa scrivevano sui muri “o ballano tutti o non balla nessuno”. Mi interessava chiedermi cosa rimanesse di quella promessa. In questo senso non è affatto casuale il cambio di formazione del gruppo, il ruolo centrale di Franco Naddei e Diego Sapignoli. Volevo un suono ben definito, che illuminasse i testi di una luce nuova, o forse di un diverso grado di oscurità.

Tra i pezzi di Lorna che mi hanno colpito di più, c’è in primis la struggente Il vuoto, a parer mio uno dei vertici assoluti della tua produzione. Puoi dirci qualcosa sulla genesi di questa canzone?

Si tratta di una storia rubata. Mi piace ascoltare le storie degli altri, appuntarle e poi farle mie, attribuendo loro un nuovo significato. Il vuoto nasce da un episodio avvenuto a Srebrenica, una conversazione tra una mia cara amica e un signore anziano. Discorrevano della guerra, di come si fosse impressa sul loro vissuto. Si chiedevano se esistesse una quantità massima di dolore che si potesse provare nell’arco di una vita. Entrambi si resero conto, nonostante l’enorme divario di anni che li separava, che il dolore li aveva portati fino a questo limite invalicabile, li aveva resi coetanei, avvicinando le loro percezioni degli eventi, dell’esistenza, della fragilità e della forza.

Su Una scia di polvere sembra invece ammiccare a De André. Qual è il tuo rapporto con la tradizione cantautorale italiana? E, nell’attuale panorama musicale internazionale, quali sono i tuoi gruppi o songwriter preferiti?

Sulla contemporaneità vado in difficoltà. Di sicuro credo a ciò che sosteneva Cioran, che ogni contemporaneo sia odioso e che non ci rassegneremo mai alla supremazia di un vivo, ma solamente a quella di un morto. Personalmente, sono inciampato nel cantautorato con Mare morto. Per la prima volta sono stato catalogato nel reparto “cantautori italiani contemporanei”. E non è stata neppure una brutta sensazione. Però continuo a pensare di non essere un cantautore, di non esserlo intimamente. Certo, De André o Nick Drake fanno parte della mia storia, così come i Neubauten e la scena trip-hop, però i gruppi che mi hanno più influenzato negli ultimi anni hanno poco a che vedere con quello che faccio. Citerei i Mostar Sevdah Reunion, Šaban Bajramović e Ljiljana Buttler, e poi El Camarón de la Isla, Enrique Morente e Diego “El Cigala”. Tutto questo sembra buffo, ma questi sono i miei ascolti più frequenti. Se vuoi un contemporaneo, ti consiglio Giacomo Toni. Ha un lirismo innato. Forse non lo sa neppure lui. E questo è un bene.

Carosello I è il pezzo forse più sorprendente della raccolta, uno strumentale tra beat drum’n’bass e synth stranianti, emblematico della fascinazione per l’elettronica che caratterizza il disco…

Beh, io ho sempre ascoltato musica elettronica, però questa non era mai entrata nella mia scrittura. L’incontro con Francobeat mi ha aperto nuovi orizzonti, anche perché non avrei accettato di fare elettronica partendo da un computer. Non volevo mettere delle basi e fingere di suonare. Volevo che i suoni mantenessero la propria vitalità, una componente di imprevedibilità che è propria della musica come della vita. Carosello I fa parte di una delle sessioni libere che abbiamo registrato in studio. Assomiglia molto nell’approccio a quello che facciamo dal vivo, al campionamento in diretta, all’interazione fisica che si concretizza in un attimo particolare, e che non è riproducibile perché non codificata. Lo trovo liberatorio.

Un altro elemento che contraddistingue la tua scrittura è qualità dei testi. Tanto nei racconti di Un giorno passo e ti libero che nelle liriche dei dischi, si affaccia l’immagine di un’umanità smarrita, alla ricerca di se stessa. Questa visione così cupa ti appartiene realmente? Chi sono gli autori che ti hanno influenzato di più nella scrittura?

Se penso a uno scrittore, penso a Kundera. Tra i riferimenti di questo disco, invece, metterei Pavese, Calvino e Cioran. Sono stati gli autori che ho sottolineato e riletto più spesso. Quelli che hanno avuto un peso reale, una sostanza visibile. Io mi rendo conto che in quello che scrivo emerge prima di tutto un lato tenebroso, dolente. Però questo mondo di cui traccio i contorni a me appare come un universo fatto tanto di speranza quanto di disperazione. Certo è una visione estrema, ma è uno squarcio pulsante, è un tumulto, un sevdah, come si direbbe in Bosnia, un’emozione che racchiude in sé ogni sentimento, un’estasi malinconica. Non vuole essere un lamento auto-afflittivo, ma piuttosto un istinto rabbioso e strozzato. Sogno spesso una rivolta silenziosa, un fiume di persone mute che comunicano la propria umanità, la propria sete di giustizia e verità semplicemente con il proprio incedere, con il rumore dei passi.

La critica, al momento della sua uscita, accolse più che positivamente Mare morto. Cosa ti aspetti riguardo quest’ultima fatica e, soprattutto, che rapporto hai con i critici?

Non mi aspetto nulla. Non credo che ci sarà una migrazione verso casa mia per estorcermi una verità che non conosco. Non sono un profeta. I dischi, come i libri, si comunicano da soli. Hanno vita propria. E penso che i critici, come ciascuno di noi, vivano e si nutrano del presente. Prova a pensare ai giornalisti, oggi, in Italia. Molti hanno la fronte bassa dei servi, fissano la terra e la concimano con il proprio conformismo. Altri provano a camminare sulle proprie gambe, provano a dividere i corpi dalle ombre, a passare la realtà attraverso il filtro del proprio pensiero. Perché dovrebbe valere una regola diversa per i critici? Qualsiasi spazio di comunicazione è vendibile e quindi falsificabile. Nel momento stesso in cui mi poni delle domande, legittimi ciò che faccio e mi assegni un grado di autorevolezza. Allo stesso modo se mi consegni un premio, se mi metti in copertina, o se scrivi che l’ultimo album di Santo Barbaro è indecente. Questo, però, non intacca ciò che faccio e la ragione profonda per cui lo faccio.

SOSTIENI LA BOTTEGA

La Bottega di Hamlin è un magazine online libero e la cui fruizione è completamente gratuita. Tuttavia se vuoi dimostrare il tuo apprezzamento, incoraggiare la redazione e aiutarla con i costi di gestione (spese per l'hosting e lo sviluppo del sito, acquisto dei libri da recensire ecc.), puoi fare una donazione, anche micro. Grazie