Come fotografie fatte con la penna, anzi, con una matita costantemente tempeata – così amava scrivere le sue storie George Simenon, lo scrittore Francesce (belga di nascita) nato a Liegi il 13 febbraio del 1903 e morto a Losanna, in Svizzera, il 4 settembre 1989.
«Fuori, chissà dove – in Rue Léopold semplicemente -, scorre una vita strana, buia perché è caduta la notte, rumorosa, affrettata perché sono le cinque del pomeriggio, fradicia e vischiosa perché piove da parecchi giorni; e i lividi globi delle lampade ad arco tremolano davanti ai manichini dei negozi di moda, e i tram passano facendo sprizzare con la punta dell’asta scintille azzurre, taglienti come lampi».
È il 12 febbraio 1903…, così continua questo incipit di Pedigree, l’opera divenuta tale dopo che André Gide lesse i quattro quaderni di appunti autobiografici scritti da Simenon in seguito a una diagnosi sbagliata che nel 1941 gli dava pochi mesi di vita. Gide consigliò a Simenon di continuare a scrivere in terza persona anziché in prima e di continuare, come fosse un romanzo, la sua autobiografia. Inizia con la vigilia del giorno della sua nascita (Liegi, appunto Rue Léopold, 13 febbraio 1903) e racconta, come stesse dipingendo su un cavalletto a due passi da ciò che accade, anche ciò che non ha mai visto, perché non era ancora nato, o ciò che non può ricordare, come cosa faceva suo padre il giorno della sua nascita.
Un perenne sentimento di nostalgia e di radicale, quasi dolorosa amarezza, per ciò che non è più o che poteva essere, permea i suoi romanzi (chiamati roman roman, per distinguerli dalle inchieste del Commissario Maigret che, con 75 romanzi e 28 racconti è un’opera letteraria a se stante.) “Un Dostoevskij mancato”, lo definì Alberto Savino. Il dritto e il rovescio della colpa, la miseria umana, le profondità abissali dei sentimenti, le sfumature di emozioni e i capricci puerili portati all’eccesso. Il bene e il male, i loro confini labili e impietosi davanti all’umana (troppo umana, direbbe Nietzsche) giustizia.
Al ponte degli archi (1921) è il suo primo racconto che mette in moto la macchina per scrivere che è George Simenon, la cui produzione giornaliera era di circa 80 cartelle. Dal 1922 al 1925 scrive più di 700 racconti. Vive in una chiatta, la vende per comprare una barca-casa con cui gira per i canali navigabili tra Francia e Paesi Bassi, dove nasce, in ogni senso, il commissario Maigret: è trovandosi a passare in un villaggio sulle rive di un canale che crea, dice di getto, il commissario che lo renderà famoso. Proprio per questo, nel donargli una biografia, lo fa nascere a Saint Fiacre. Nel 1928 esce il primo romanzo Romanzo di una dattilografa, che Andrea Camilleri racconta di aver letto a 6 anni. Nel 1931 ha la luce la prima inchiesta di Maigret dal titolo Pietr il lettone.
Jules Maigret è il commissario di polizia giudiziaria, squadra omicidi, di Parigi, un corpulento omone dai folti baffi neri, l’aspetto burbero e la passione per la buona cucina e la pipa. Vive con sua moglie, la “Signora Maigret” come la chiama lui stesso, (all’anagrafe Louise) in Boulevard Richard-Lenoir, vicino Place de la Republique. Il suo ufficio è il Quai des Orfèvre, dove troviamo i suoi collaboratori: Torrence, Lucas, Janvier e il giovane Lapointe; inoltre, il giudice Comelieau e il responsabile della polizia scientifica dottor Moers. Poi ci sono gli amici personali della famiglia Maigret: i coniugi Pardon, di cui il marito è medico personale di Maigret. Un vero e proprio mondo, fatto di luoghi, quartieri, piazze e vie, ma anche bistrot, osterie, bettole… o la Brasserie Dauphine che rifornisce il “Quai” di panini e birre durante gli interrogatori. Parigi è indubbiamente uno dei personaggi delle inchieste: mentre cammina (preferisce sempre andare a piedi) per immergersi nelle atmosfere e ambientazioni degli omicidi su cui indaga, Maigret si ferma a bere: grog, birra, calvados. Alcuni “episodi” lo vedono in trasferta, addirittura in vacanza, rigorosamente nel Midi, dove varia la dieta di gran bevitore con il pastis.
Maigret pensa: lunghe pagine sono dedicate alle sue riflessioni, alla ricerca delle motivazioni personali dei personaggi coinvolti nel delitto, più che nella ricerca di indizi materiali. Il suo metodo è psicologico, senza dubbio. Il suo intuito è guidato da principi morali; scrive Simenon parlando di lui in un’intervista: «A Maigret ho dato un’altra regola: non bisognerebbe mai togliere all’essere umano la sua dignità. Umiliare qualcuno è il crimine peggiore di tutti».
Due matrimoni, quattro figli, una tiratura complessiva delle sue opere di 700 milioni di copie, il terzo autore francese più tradotto nel mondo dopo Jules Verne e Dumas (padre). Secondo Andrea Camilleri, Simenon ha ampiamente contraddetto la frase di Pirandello secondo cui “la vita o si scrive o si vive” e afferma che George Simenon l’ha “vissuta scrivendola e l’ha scritta vivendola”. Questa frase dall’alto contenuto di verità, è concretamente e compiutamente confermata da Memorie intime, involontaria ma vera autobiografia di Simenon, suo testamento intimo e chiave per comprendere (e godere) al meglio della sua sconfinata e bellissima opera letteraria.
Foto in copertina: Archivi Mondadori, CC BY-SA 4.0 <https://creativecommons.org/licenses/by-sa/4.0>, via Wikimedia Commons