Orson Welles – Il processo

Poteva un regista come Orson Welles superare se stesso dopo aver girato un capolavoro del peso di Citizen Kane? Difficilmente, nonostante si stia parlando di uno dei registi più creativi della storia del cinema, diventato un punto di riferimento per le generazioni successive, inclusi molti autori avanguardisti. Eppure Citizen Kane non è il solo capolavoro di Welles, un regista la cui arte ha attraversato molteplici generi, arrivando sempre a produrre opere meritevoli di questo titolo; tuttavia, non tutti i suoi film furono apprezzati dalla critica contemporanea e tra questi in particolare uno, poco amato alla sua uscita nelle sale nei primi anni ‘60, ha subito un meritata rivalutazione solo in tempi recenti: parliamo de Il processo, film che vede come protagonista l’attore Anthony Perkins (reso celebre da Psycho pochi anni prima).

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Il film prende come spunto l’omonimo romanzo di Franz Kafka ma, come Welles ha sottolineato in un’intervista, esso è solo ispirato al romanzo di partenza, piuttosto che esserne tratto; secondo il regista, la discrepanza cronologica tra l’ambientazione kafkiana e gli anni ’60 non poteva consentire una trasposizione fedele. Ma la storia, assieme al suo significato profondo, riprende nella sostanza il romanzo: Perkins interpreta Josef K., un semplice impiegato che, senza alcuna ragione, viene accusato di essere colpevole di un innominato crimine. Due ambigui poliziotti gli comunicano la notizia, senza però rivelare la natura del fatto commesso, né degli accusatori: K. si ritrova così a dover cercare la verità da sé, indagando tra le spire di una giustizia che si rivelerà essere sempre più oscura e meno accessibile.

L’inutile ricerca di K. sembra in definitiva la realizzazione di una vecchia parabola, quella dell’uomo recatosi di fronte alla porta della legge (Welles fa riferimento all’episodio descritto nel racconto kafkiano Davanti alla legge inserito nel romanzo): questa cupa storia dal tragico epilogo apre il film e significativamente è ripresa in una delle sequenze finali, nella quale protagonista della novella diviene lo stesso K., messo metaforicamente di fronte all’imponente porta di una giustizia che non gli concederà mai l’ingresso.

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Il film è stato soprattutto criticato perché eccessivamente “freddo”, caratteristica che può generare un distacco emotivo dello spettatore nei confronti dei personaggi, dotati di scarso spessore secondo la critica dell’epoca. I punti di forza de Il processo sono invece da cercare altrove: soprattutto nelle scenografie, che sono state in grado di ricreare un ambiente perfettamente coerente con l’atmosfera “kafkiana” del romanzo, cioè opprimente e ansiogena, costruendo luoghi dall’alto effetto suggestivo, che sembrano effettivamente schiacciare l’individuo tra le proprie mura e incastrarlo in geometrie claustrofobiche. Questa architettura imponente (la cui essenza è ben rappresentata dallo scenario dell’abbandonata Gare d’Orsay) è quindi colmata con gli strumenti della burocrazia, un aspetto del mondo moderno che da sempre ha tormentato Kafka. Pile di fogli, scaffali infiniti, uffici alienanti: gli elementi attraverso i quali opera questa giustizia caotica sono dettagli sempre lasciati in primo piano.

In definitiva, anche non volendolo accostare ai capolavori precedenti di Welles, va riconosciuto il grande valore di questo film costruito ad arte, un’opera che, seppur non proprio fedele al testo di partenza (è facile osservare come il personaggio di Perkins sia più reattivo e determinato della controparte letteraria), ricostruisce perfettamente la tipica atmosfera da incubo che si respira nelle opere kafkiane, rendendo pienamente omaggio al grande letterato praghese. Nulla si può poi contestare in sede di regia tecnica: l’abilità dietro la macchina da presa e la cura per illuminazione e messa a fuoco in questo film sono ancora capaci di fare scuola a molti registi contemporanei e fanno di questo film, al di là di ogni critica, una delle opere visivamente più suggestive di Welles.

 

 

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