László Nemes – Il figlio di Saul

Non c’è mai fine alla crudeltà umana e a confermarcelo è László Nemes con Il figlio di Saul, film già vincitore di un Golden Globe e candidato all’Oscar per il miglior film straniero 2016. Prima di Nemes, altri registi si erano avvicinati alla materia: citiamo solo Steven Spielberg con il suo Schindler’s List, Roberto Benigni e La vita è bella, il tragico Jona che visse nella balena di Roberto Faenza, Kapò di Gillo Pontecorvo e il monumentale Shoah, il documentario di nove ore sull’Olocausto, realizzato da Claude Lanzmann.

Tuttavia, il mostruoso capitolo sulle deportazioni e i campi di sterminio viene raccontato ne Il figlio di Saul in maniera particolarmente tragica e dura, tanto che il Guardian ha definito la pellicola «un traguardo nella storia del cinema» e, aggiungiamo noi, anche nel modo di testimoniare l’Olocausto. Il film ha come protagonista un ebreo ungherese rinchiuso ad Auschwitz. Saul è un sonderkommando, costretto a collaborare con i nazisti all’interno del campo: è lui, insieme a un altro gruppo di prigionieri, a disfarsi dei cadaveri degli uccisi nelle camere a gas, bruciandoli nei forni. Ma, un giorno, tra quella massa di corpi privi di vita, Saul crede di riconoscere suo figlio, scampato al gas ma immediatamente soppresso dai nazisti. L’uomo decide che quel corpo non deve venire bruciato insieme a tutti gli altri, ma sepolto.

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Come ne La vita è bella, anche qui ci sono un padre e un (presunto) figlio, ma non c’è modo, tramite la comicità, di sfuggire alla realtà. Il figlio di Saul è, nella sua drammaticità, un capolavoro cinematografico, probabilmente IL film definitivo sull’Olocausto e i suoi orrori. Dopo questa pellicola, sarà difficile trovare parole e immagini nuove per raccontare quella che è stata una parentesi terribile nella storia dell’uomo, il simbolo di ciò che l’essere umano è stato in grado di compiere in nome della “razza”. Si crede che sulle persecuzioni naziste sia stato detto tutto ed ecco che arriva questo pressoché sconosciuto regista ungherese (al suo esordio dietro la macchina da presa, dopo essere stato a lungo l’assistente di Béla Tarr), che varca insieme agli spettatori i cancelli di Auschwitz e filma, senza filtri, una realtà dura, resa ancora più atroce da quella frase che accoglie i prigionieri alla loro entrata nel campo: il lavoro rende liberi.

Bugie su bugie, perché anche per i sonderkommando non esiste libertà, nonostante il loro terribile compito, che li rende vittime e carnefici obbligati. Anche per quei prigionieri “speciali” la morte è solo un appuntamento rimandato. Ad un certo punto, Saul lotta, compie la sua ribellione all’interno del campo non per avere salva la vita, ma per tutelare il corpo del figlio. La volontà di dare a quel cadavere degna sepoltura è il simbolo di una dignità umana che va recuperata, a tutti i costi, perché è la sola speranza per un futuro migliore.

Il figlio di Saul non è un film facile e va detto. È un pugno nello stomaco, è una pellicola difficile da affrontare, ma che va affrontata. Alla vigilia della Giornata della memoria, è sempre più chiaro che  il nostro principale dovere nei confronti del passato è quello di ricordare: ma ricordare il giusto, il vero, l’orrore, perché l’Olocausto non è stato quello raccontato da Benigni. È soprattutto altro, una realtà dove per il sorriso non c’era spazio, dove sorridere era pressoché impossibile, dove a fare da padroni erano la morte e la paura, che troppo spesso si trasformava in pazzia.

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