Morte e Bellezza ne “Il corvo” di Edgar Allan Poe

The raven, il corvo, è il titolo di una poesia di Edgar Allan Poe, frutto di un’attenta analisi in cui nulla è affidato al caso o all’intuizione, dalla lunghezza del componimento (un centinaio di versi) all’obbiettivo, la decantazione della Bellezza, intesa come elevazione dell’anima.

La Bellezza, in tutte le sue manifestazioni, «suscita nelle anime più sensibili il pianto», e per questo si esplica mediante l’uso di toni malinconici e con un particolare espediente artistico che cattura l’attenzione del lettore: il refrain, un ritornello che ne Il corvo non segue le regole tradizionali di identità di pensiero e suono della poesia lirica. Piuttosto, si individua una sonorità in grado di creare effetti diversi in relazione al testo che la precede.

Proprio per permetterne un utilizzo flessibile, venne scelto un refrain breve, collocato alla fine di ogni strofa, una singola parola che per Poe doveva possedere delle caratteristiche ben precise: una sonorità tale da creare un’intensità prolungata (e per questo venne pensato un termine che contenesse una “o” lunga, «la più sonora delle vocali» e la “r”, «la più prolungabile delle consonanti») e un accordo perfetto col tono malinconico deciso dall’autore per la sua poesia.

Da qui la scelta di “nevermore”, in italiano “mai più”. Chi è destinato a pronunciare questa parola senza speranza? Poe opta per un animale, all’inizio un pappagallo, poi un corvo. Qual è l’argomento più triste di cui si possa parlare? La Morte. E, volendo decantare la Bellezza, in che modo essa si può accompagnare alla Morte? Quando a morire è una bella donna. E quali labbra sono più adatte a esprimere il dolore provocato dalla perdita? Quelle dell’uomo privato della donna.

Gli elementi sono pronti per essere uniti: da una parte l’amante – il narratore che piange l’amata morta -, dall’altra il corvo che continua a ripetere il refrain. Le due entità devono entrare in contatto e, nel medesimo tempo, non bisogna dimenticare la «variazione di applicazione» del ritornello: da questi presupposti, Poe concepisce la struttura base del componimento, con l’amante che pone diverse domande e il corvo che risponde sempre “nevermore”.

Si parte con interrogativi banali, per arrivare a quesiti sempre più profondi, con l’angoscia del protagonista che cresce di domanda in domanda: il narratore è condizionato dalla continua ripetizione del termine, dalla malinconia insita nella parola, dal fatto che a pronunciarla è l’uccello del malaugurio. L’uomo cade così «preda della superstizione», comincia a fare domande sempre più importanti, le cui risposte sono per lui fondamentali, col corvo che risponderà sempre e comunque allo stesso modo. Ma l’amante sa che l’uccello sta ripetendo meccanicamente qualcosa che gli è stato probabilmente insegnato: tuttavia, continua a porre quesiti poiché «prova un folle piacere nel formare le sue domande, in modo da avere dall’atteso “nevermore” quel dolore che è il più delizioso, perché il più intollerabile».

Il dolore viene così concepito da Poe come il massimo dei piaceri, in quanto l’uomo è dominato dal desiderio perverso di infliggersi torture, in questo caso, psicologiche. L’angoscia, resa più acuta dalle risposte del corvo, è già da tempo nell’animo del narratore che, in un lento processo masochista, si consuma e si distrugge («e il mio cuore da quell’ombra non risorge più da allora!»), diviso tra il desiderio di ricordare e dimenticare: non è crudele il corvo che ripete “nevermore”, è l’uomo che diventa contemporaneamente carnefice e vittima di sé stesso, nel suo continuo e impellente bisogno di interrogare l’uccello, fino alla discesa irreversibile nella pazzia.

Il corvo rappresenta il manifesto della poetica di Poe, la sintesi dell’orrore, del mistero, della tensione che culmina nella follia. Nei precedenti racconti Il gatto nero e Il cuore rivelatore, i narratori dovevano fare i conti col senso di colpa per avere ucciso qualcuno. Ne Il corvo, si menziona solo il fatto che Leonora è morta, non si sa come, si può solo supporre che il narratore sia stato il suo assassino. Certo è che, il ricordo della donna lo perseguita e lo spaventa.

Il senso di colpa provato dai personaggi di Poe non è mai di natura morale, nessuno di loro si sente colpevole per aver commesso un’azione malvagia e lo scrittore non ha mai come fine ultimo nelle sue opere l’insegnamento, dal momento che considera la didattica «la peggiore delle eresie». Per Poe, il senso di colpa corrisponde al perverso desiderio di auto distruzione di cui anche il protagonista de Il corvo è vittima, un processo sinistro, inspiegabile e definitivo che si tinge di quei toni macabri che accompagnarono, in seguito, il Simbolismo e il Decadentismo.

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