David Bowie, l’uomo che si fece capolavoro

Una mattinata che non dimenticherò mai. Ero nel letto. La sveglia aveva da poco lanciato il suo allarme. Ora di alzarsi, fare colazione, lavorare – ora di riprendere il normale corso delle cose dopo la pausa del weekend. Avevo appena scostato il lenzuolo, gesto solito che precede di qualche torpido secondo lo scatto di reni definitivo, quello che spinge fuori dal piumone, quando la mia ragazza mi fa: “C’è una brutta notizia. Non so se voglio dartela. Leggi qui”. Mi mette davanti agli occhi l’iPhone. L’app di Facebook è aperta sulla pagina ufficiale di David Bowie. Il comunicato, asciutto e, al tempo stesso, indefinibilmente tenero, recita:

January 10 2016 – David Bowie died peacefully today surrounded by his family after a courageous 18 month battle with cancer. While many of you will share in this loss, we ask that you respect the family’s privacy during their time of grief.

Non ci credo. Leggo e rileggo quelle tre righe. Non sono neppure le 8, è un lunedì qualsiasi, fuori c’è il sole. Bowie ha pubblicato da poco il suo ultimo album, Blackstar, tutti l’abbiamo visto muoversi affilato e ipnotico come sempre nell’ultimo video. Non posso crederci. Ma è la sua pagina ufficiale, non si tratta di una bufala. Deve essere un hacker. Tanto più che l’Ansa e i giornali italiani non ne scrivono. Repubblica XL ha condiviso il post, ma senza commenti. Ora immagino che tutti, come me, stessero cercando di prendere tempo per capire se una cosa del genere, così enorme e avvilente, potesse essere accaduta sul serio. Ma è accaduta: David Bowie è morto.

Cancro. Ci combatteva da 18 mesi. L’uomo dalle mille maschere, dalle mille vite, non c’è più. Ha chiuso gli occhi su un letto, sconfitto da una malattia terribile. Il primo pensiero che ho avuto è che la sua sia stata una morte come quelle di tanti. E invece no, mi sono detto poi, non lo è stata. Perché è venuta due giorni dopo il suo compleanno e la release dell’ultimo disco, Blackstar. Dentro c’è un pezzo come Lazarus, “Lazzaro”, il cui video è ambientato in una stanza d’ospedale e che comincia con un verso, “Look up here, I’m in heaven”, che solo a ripensarci ora fa male.

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Bowie aveva previsto tutto. Aveva calcolato tutto. Sapeva di star per morire e ha progettato, scritto, suonato il proprio funerale. Blackstar è il suo più grande regalo. Non perché sia un capolavoro (al primo ascolto ho pensato fosse un buon disco, non un disco eccellente: ci ritornerò su), ma perché è stata l’occasione per partecipare tutti, senza saperlo, al suo addio.

Blackstar segna la transustanziazione di Bowie. Il suo corpo mortale si è dissolto nella sua arte, in un vertiginoso gioco di sincronismi (la scomparsa due giorni dopo il disco) e citazioni autobiografiche (la maschera spaurita degli ultimi due video). Non una novità per uno che ha sempre speculato sulla con-fusione fra arte e vita, ma il fatto che abbia inscenato (nel senso di allestito ad uso e consumo di un pubblico, non simulato) anche la propria morte, la morte “vera”, non metaforica come quella che colse Ziggy Stardust giusto un pelo prima del tramonto del glam-rock, è sconcertante. Al di là del piacere estetico, l’ascolto di Blackstar rinnova il miracolo di un artista che ha saputo trasformare se stesso in un grandioso, totale, capolavoro.

Nel corso della sua carriera, Bowie è stato tanti personaggi: difficile stabilire il più bello. Posso dire, però, che nelle mie fantasie egocentriche di tardo adolescente, sognavo spesso di essere il “thin White Duke”, l'”esile Duca Bianco“. Mi sembrava l’incarnazione perfetta di tutto ciò che uno potesse desiderare per il proprio sé: un gelido gentlemen nietzscheiano con i capelli tirati all’indietro e la sigaretta pendula, che attraversava la vita da seduttore spietato ma con un fondo di disperata nostalgia, la malinconia di E.T., dell’alieno che brama solo di tornare a casa.

Questa è la mia idea di Bowie, ma non è che un’idea. Perché Bowie era infinito. Non, pirandellianamente, uno, nessuno e centomila – Bowie non si smarriva nella sua totalità -, ma una supernova la cui energia riempiva tutto lo spettro dell’essere. Qualche giorno fa, in occasione del suo compleanno, avevo scritto che “un’esistenza del genere non conosce epilogo”. Mi sembra vero anche oggi. Ma l'”esile Duca Bianco” mi mancherà comunque.

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