Bruce Springsteen – Born to run

Notte, la periferia americana. Le ragazze danno un’ultima sistemata alla pettinatura, i ragazzi provano le loro espressioni da duri nello specchietto retrovisore. Il rombo di un motore che squarcia il silenzio polveroso delle highway, la fretta di andare, mettere chilometri tra i propri desideri e lo squallore della vita di tutti i giorni. L’American Dream di Bruce Springsteen è un eden a cui è stato strappato l’ultimo velo di illusione. Dietro la superficie scintillante della “Land of the Freedom” si cela la solitudine delle tante Mary che danzano come spettri al suono di una vecchia canzone di Roy Orbison (Thunder road), la voglia di rivalsa dei Bad Scooter (Tenth avenue freeze-out), i piccoli traffici notturni (Meeting across the river), le grandi amicizie (Jungleland) e poi ovviamente l’amore, fatto di “grazia assassina” e cuori che si spezzano (She’s the one).


Springsteen racconta l’epopea degli eterni sconfitti, “eroi infranti alla guida della loro ultima possibilità” (Born to run). Lo fa con un arsenale di trucchi retorici – epica whitmaniana, spirito proletario alla Guthrie, shouting selvaggio, un sound che modula rock e rhythm and blues – cogliendo però nel segno. Un bianco in grado di spendere in egual misura energia e poesia: nessuno all’epoca aveva ascoltato niente di simile. Il produttore Jon Landau, con un mix di trasporto genuino e calcolo commerciale, disse di aver visto in lui “il futuro del rock and roll”. E in effetti ancora oggi, a quarant’anni dalla sua pubblicazione, Born to run suona schietto, furioso, disperato e lacerante come la prima volta.

Forse perché nel frattempo non siamo cambiati. Piangiamo per le stesse donne, perdiamo gli stessi amici e, mentre tiriamo a campare, facciamo gli stessi sogni. Quando attacca la title-track ti immagini in una corsa senza respiro su una di quelle strade da Easy rider e ti sembra che Springsteen stia parlando di te, che è per te e la tua vita che stia suonando la carica. Il piano di Roy Bittan, il sax di Clarence Clemons, l’organo di Danny Federici, la batteria di Max Weinberg fanno da propulsore e miele, garantiscono enfasi e tenerezza, malinconia e giocosità. Le otto tracce di Born to run sono i grani del rosario dei tramp, le preghiere della sera di chi è in ginocchio, al buio, e come unica amica ha la strada. La Spoon River dei vivi che non si rassegnano e corrono, perché correre è tutto e restare è morire.



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