Inizia come un giallo, con il cadavere deturpato di una donna assassinata trovato dal marito a Montréal, il corposo romanzo del drammaturgo Mouawad, nato in Libano nel 1968 e trasferitosi in Canada: ma lo capisci immediatamente che siamo in una dimensione “altra”, una dimensione in cui le voci si sovrappongono, espressioni confuse di un essere che si trova a mezza strada fra l’animale e l’homo sapiens.
Ti viene in mente allora che è forse l’anima del cosmo, sepolta da strati di civiltà, che ti verrà squadernata davanti: ad aprirtene l’accesso è un gatto che ti racconta il reperimento del cadavere. Da quel momento un bestiario, in parte reale e in parte immaginario, segue il protagonista nella sua caccia all’assassino della moglie. Il linguaggio degli animali è peculiare, residuo dell’antica lingua primordiale parlata da uomini e bestie sulle «rive dei paradisi perduti». Solo un ritorno a quell’idioma dimenticato consente di recuperare la funzione essenziale del linguaggio: dare un nome alle cose, individuare il nesso fra l’uno e il molteplice, «materializzare l’incomprensibile» e dargli un senso. Messaggio intricato, ma lo stesso senso della missione del protagonista lo è: non vuole vendetta, ma guardare in faccia l’assassino per avere la certezza di non essere stato lui a compiere l’efferato delitto. In realtà ciò che cerca vagando in territori di confine, dai nomi simbolici, fra riserve indiane, il Canada e gli Stati Uniti, è la verità su se stesso, come un novello Edipo. Per questo gli animali ne riconoscono la sacralità di esploratore degli abissi: il suo stesso nome, Wahch Debch, in Libanese significa “mostruoso”, la sua famiglia è stata massacrata a Sabra e Chatila dai cristiani miliziani, un soldato lo ha salvato e adottato.
Proprio come Edipo, la sua sorte esemplare lo trasforma in personaggio mitico e la mitologia, cosi come la visione totemica della realtà degli amerindi, fa da sostrato filosofico al romanzo: in Debch si assommano in un groviglio inestricabile bene e male, il suo viaggio divagante in territori ai margini della civiltà fra una frontiera e l’altra, tra un’esperienza traumatica e l’altra, è più un delirio allucinato che un percorso lineare. Una lettura dunque estenuante, dolorosa, concludendo la quale si dovrebbe percepire «il grande silenzio… dal quale sono emersi come direbbe uno di quegli animali, cavallo, mosca o maiale, le grida di tutti coloro che sono morti nel silenzio e nell’oblio, bambini, donne, uomini, bestie e divinità che tappezzano, strato dopo strato, i secoli e i cieli».
9788876256110