“Segnali di pop”: Franco Battiato e la trilogia del ’79-’81

Franco Battiato festeggia oggi 70 anni. Nel corso della sua carriera è stato molte cose: un compositore d’avanguardia, un cantautore, un filosofo, un regista, un pittore. Soprattutto, Battiato è stato un (grande) autore pop. Tra i suoi dischi, un posto speciale spetta a L’era del cinghiale bianco (1979), Patriots (1980) e La voce del padrone (1981): un’ideale trilogia con cui, partendo da radici nobilissime, Battiato ha stravolto la tradizione canzonettara italiana.

Sono album fatti di brani ammalianti, densi di riferimenti colti, eppure stranamente leggeri, cantabili. Battiato è Stravinskij e Amanda Lear, l’italodisco e l’idiosincrasia snob, Stranizza d’amuri e i Rolling Stones. Anche le coordinate geografiche saltano: la Sicilia, il Medioriente, il Nord Europa. L’era del cinghiale bianco, Patriots e La voce del padrone rappresentano un sincero tentativo sincretico tra culture, prima che fra stili diversi, e insieme una sorta di serafica e disillusa denuncia delle contraddizioni del tempo, implacabile ma non priva di auto-ironia.

Visioni arcaiche («Gesuiti, euclidei, vestiti come dei bonzi per entrare a corte degli imperatori»), provocazioni («È meglio un imbianchino di Le Corbousier»), Cristianesimo, esoterismo, avanguardia e pop da classifica: il trittico del 1979-1981 rappresenta una fase cruciale della produzione di Battiato e della storia della musica italiana. Ne parliamo qui sotto, e a Franco Battiato: grazie di tutto.

L’era del cinghiale bianco (1979)

Dopo la pubblicazione di L’Egitto prima delle sabbie (Ricordi, 1978), Battiato cambiò casa discografica. Firmò con la EMI, ma l’esordio con l’etichetta non fu facile. La prima versione de L’era del cinghiale bianco era stata realizzata senza basso e batteria, e fu scartata dagli stessi autori: per le seconde session furono coinvolti Tullio De Piscopo e Julius Farmer, ma il risultato non convinceva quelli della EMI. Su indicazione di Bruno Tibaldi, presidente della casa discografica, L’era del cinghiale bianco fu pubblicato comunque, ma non ottenne grandi riscontri di critica e vendite.

Nel disco, Battiato declinava le sperimentazioni del passato in un formato più pop. La title-track, con il suo riff di tastiera classicheggiante e il ritornello implacabile, la chitarra elettrica quasi glam di Magic shop e il mix di pop, jazz e rock di Strade dell’Est, rappresentano una svolta sorprendente rispetto al passato. La malinconia visionaria della musica di Battiato è comunque intatta, ben riassunta da pezzi come Il re del mondo (che cita un’opera di René Guénon) e lo strumentale romantico Luna indiana. In chiusura, un omaggio a due terre particolarmente amate da Battiato: l’Africa (Pasqua etiope) e la Sicilia (Stranizza d’amuri).

L’era del cinghiale bianco segna la transizione di Battiato ad un formato più accessibile rispetto alle sperimentazioni del passato, ma non per questo più banale.

Patriots (1980)

Ancor più de L’era del cinghiale bianco, Patriots segna l’approdo di Franco Battiato ad una nuova idea di canzone. Le melodie sono in primo piano, i riferimenti colti amalgamanti in pezzi con ritornelli-tormentone. La struttura narrativa, cara ai cantautori, si sfalda in un patchwork di mille frammenti, accostati quasi casualmente.

Una nuova idea di ermetismo, dunque, che per ammissione dello stesso Battiato vuol dire “tutto e niente”. Tra i capolavori di Patriots troviamo la title-track, ironica presa di posizione contro la musica contemporanea, la trascinante Venezia-Istambul, la struggente Prospettiva Nevski e Le aquile (ispirata a Statue d’acqua, romanzo della scrittrice Fleur Jaeggy). Non che gli altri pezzi siano riempitivi: Arabian song ribadisce l’amore di Battiato per le civiltà orientali con un uptemo contagioso, incorniciato da un avvolgente riff di sintetizzatore, mentre Frammenti e Passaggi a livello sono emblematiche della capacità del musicista siciliano di accostare cultura alta e bassa.

Patriots ottenne un buon successo, entrando nella top 30 dei dischi più venduti ed aprì a Battiato nuove strade, tra cui la proficua collaborazione con Alice.

La voce del padrone (1981)

La progressione iniziata da Battiato con L’era del cinghiale bianco e Patriots raggiunge l’apice con La voce del padrone. Il disco trova l’equilibrio perfetto tra sperimentazione e pop di consumo, tra spensieratezza e polemica, spiritualità ed edonismo anni ’80. Se i suoni sono quelli dell’electropop del periodo, i contenuti decisamente no. In Summer on a solitary beach il battito disco è accompagnato dalle tipiche immagini surreali del cantautore catanese. Il desiderio di distacco, di isolamento, diventa presa di distanza ideologica in Bandiera bianca, il primo singolo, presentato prima alla Mostra di Venezia (con un coro di madrigalisti) e a Discoring: il pezzo è una resa all’Italia del riflusso, che riprende la Ode a Venezia di Arnaldo Fusinato.

Centro di gravità permanente è un altro classico, una melodia irresistibile arricchita da un testo ispirato alle teorie del mistico armeno Georges Ivanovič Gurdjieff. Tra le hit, anche Cuccurucucù, che cita nel titolo un brano di Caetano Veloso. Gli uccelli e Segnali di vita sono meditazioni classicheggianti su spazio, tempo, «geometrie esistenziali» e «meccaniche celesti», mentre Sentimiento nuevo offre, proprio in chiusura, una digressione su sesso e carnalità.

In classifica La voce del padrone partì piano, ma alla fine dell’anno tagliò il traguardo del milione di copie vendute (prima volta per un album italiano): niente male per uno che era partito come discepolo di Stockhausen.

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