Bennett Miller – Foxcatcher – Una storia americana

Arriva un momento ad Hollywood in cui finalmente ad un regista è concessa la possibilità di girare un film in totale libertà, privilegio che di solito fa seguito ad un grande successo di critica e di pubblico. Senza imposizioni produttive e senza limitazioni particolari ma solo fidandosi del mestiere del’autore, il quale saprà replicare, avendo carta bianca, l’exploit del film precedente. È questa la situazione, nonostante il budget risicato, in cui si è trovato a lavorare Bennet Miller, talentuoso regista reduce dalla pioggia di consensi per Truman Capote – A sangue freddo e soprattutto per Moneyball – L’arte di vincere. Il risultato è questo Foxcatcher – Una storia americana, un film di sport atipico e complesso che trova, nella sua ricerca a volte forzata dell’anticonvenzionalità, allo stesso tempo sia momenti di grande cinema sia momenti che sembrano “costruiti a tavolino”. Ma andiamo per gradi.

 

Ispirato a fatti realmente accaduti, Foxcatcher racconta il torbido rapporto tra John Du Pont, un “ornitologo, filatelico e filantropo”, e due campioni di lotta libera, Mark e Dave Schultz. Quando i due vengono invitati da Du Pont ad allenarsi nella sua tenuta dove ha costruito una palestra all’avanguardia per le promesse di questo sport, il più grande dei due fratelli Dave decide di restare insieme alla famiglia, mentre l’altro, abbagliato dalla fama e dai soldi, accetta subito. Quello tra Mark e John sarà così l’incontro tra due solitudini: da un lato un eroe olimpico americano trascurato da tutti, dall’altro un miliardario, alla continua e vana ricerca del rispetto dei suoi pari e soprattutto della madre, i quali insieme svilupperanno un rapporto morboso che sfocerà inevitabilmente in tragedia.

 

 

Se da un lato Miller, che ha ricevuto il premio alla regia all’ultimo Festival di Cannes, è eccezionale nel valorizzare le interpretazioni degli attori (Mark Ruffalo e Channing Tatum meglio di Steve Carrell, appesantito da un trucco eccessivo) e nel costruire un’atmosfera sospesa e sinceramente inquietante, dall’altro si avverte sempre la volontà da parte del regista di spremere fino all’ultima goccia il suo “essere-autore-a-tutti-i-costi” cercando, talvolta forzatamente, di lavorare in sottrazione lungo tutti i 134 minuti che compongono la pellicola e conferire a questa un artefatto “stile da festival”.

 

Ma sono proprio quei silenzi, quegli sguardi tra i protagonisti, quelle lunghe sequenze inesplose e trattenute ad “ipnotizzare” lo spettatore e a consentirgli di immergersi nei tanti sottotesti che offre il film. Ed è così che la regia trasforma lo spettatore nel testimone distaccato ed insieme lucidissimo di un fatto di cronaca dai connotati ben più ancestrali e profondi di quelli che mostra in superficie e che affonda le radici al nocciolo della cultura americana.

 

 

 

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