Depeche Mode – Black celebration

La “black celebration” cui allude il titolo del quinto album dei Depeche Mode ha rischiato di essere il loro funerale. E non è uno scherzo. La gestazione del disco fu particolarmente elaborata: le pressioni della casa discografica e le manie di perfezionismo di Martin Gore e Alan Wilder, rischiarono di far implodere la band (pare che Gore volesse buttare tutto nel cestino e ricominciare daccapo dopo aver consegnato i master ai co-produttori Daniel Miller e Gareth Jones). Fortuna le cose andarono diversamente. Black celebration è una delle perle del canzoniere della band inglese, intriso com’è di morte, fatalismo, romanticismo disperato. Sono lontani, insomma, i giorni di I just can’t get enough: i beat delle quattordici tracce suonano pesanti, tormentati. Lo stesso gli incastri di loop, le linee di synth e la voce Gahan: stanca, afflitta, ma ancora viva.

La “black celebration”, insomma, esorcizza l’ennesimo «giorno nero» sospinta da una pulsazione instancabile (la title-track), che apre al funk e affaccia su un baratro di pessimismo cosmico. «La morte è ovunque» e persino le mosche sul parabrezza ricordano la caducità dell’esistenza (Fly on the windscreen). Il sesso è dolente, carico di malinconia (Question of lust, cantata da Gore). Il trittico iniziale culmina nell’estatica Sometimes, tutta giocata su voci in delay e un accompagnamento di piano in odor di gospel. Il tono è dimesso, oppresso dal senso di un’ineluttabilità crudele (la “ticchettante” It doesn’t matter two, altro splendido esempio di cuore e tecnica).

A question of time, appunto: è «questione di tempo» prima che tutto si corrompa – bellezza, gioventù, volontà. Le pulsazioni qui accelerano, ma il tono, più che aggressivo, è sinistro, inquieto, mesmerizzante. Dressed in black, dal canto suo, si concede un suggestivo passo di valzer, immersa in atmosfere goticheggianti, mentre New dress e Breathing in fumes rinverdiscono i fasti dancefloor dei Depeche Mode, giocando, rispettivamente, con beat industriali e lugubri iterazioni. Emblematica del perfezionismo della band è la classica Stripped: la cura certosina del sound e l’arrangiamento (al solito) spettacolare di Wilder non soffocano l’emozione, ma la canalizzano, la distillano.

Bur not tonight accenna ad una catarsi: la pioggia si mescola alle lacrime e infonde nuova vita («And I haven’t felt so alive / In years»). Sospinto dal passo blues cameristico di Black day (che Personal Jesus riprenderà in forme più muscolari e sardoniche), un altro giorno “nero” è passato. La «black celebration» dei Depeche Mode, però, quella continuiamo a portarcela nel cuore.

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