Johnny Marr – Playland

Non bisognerebbe mai amare qualcuno al passato. È un sentimento inautentico, semplicemente una variante della nostalgia, che rischia di fuorviare rispetto all’unica cosa che conti realmente: il presente. Con Johnny Marr, l’errore è sempre dietro l’angolo: uno non vorrebbe, ma quando si ascoltano i suoi lavori solisti, incluso quest’ultimo, Playland, puntualmente salta fuori il paragone con l’altra sua creatura, gli Smiths. E, inevitabilmente, le cose nuove ne escono sconfitte.

Come il precedente The messenger, Playland non è un album terribile. Tuttavia, nel suo riciclo di materiali e stili della tradizione Brit, manca di personalità, soprattutto dal punto di vista delle melodie, da sempre il punto forte di Marr. Tra i momenti migliori, il trittico iniziale: Back in the box e Dynamo trascinano con progressioni epiche e rocciose, mentre Easy money sfodera un groove new wave niente male. Sul versante più malinconico, spicca The trap, ma la sensazione è che sappia un po’ troppo di New Order (e di Electronics, il duo che Johnny Marr mise in piedi negli anni ’90 con Bernard Sumner).

L’impressione è che Marr abbia proseguito con facilità lungo la strada tracciata da The messenger, ovvero un pop-rock chitarristico magari pure d’impatto, ma con poca sostanza – vedi la punkeggiante title-track, che azzecca decisamente il pattern ritmico marziale, le tastiere e il feedback di chitarra, senza però riuscire ad eguagliare in intensità i vari Ramones, Cramps o Suicide (o, per restare in tema, The queen is dead degli Smiths). E ciò anche per via del cantato anonimo di Marr: ascoltate Boys get straight e ditemi se, con un altro vocalist, quel refrain non avrebbe avuto almeno un po’ più di profondità.

Il rimpianto per Playland è maggiore se uno tra le premesse ci mette, oltre ovviamente al talento di Marr, anche il concept: l’ispirazione per il disco viene infatti da un libro di Johan Huizing, uno storico olandese a cui si deve, tra le altre cose, il trattato Homo ludens. Le 11 canzoni della tracklist ruotano intorno al tema della vita in città, raccontano di ansia, sesso, consumismo, avidità, ma senza rinunciare ad elementi autobiografici (25 hours, ad esempio, parla dell’educazione cattolica decisamente repressiva che Marr ricevette da ragazzo).

A conti fatti, però, l’inquietudine che Playland vorrebbe raccontare risulta alla fine un po’ sbiadita e priva di spunti realmente nuovi. Playland è un discreto disco pop, ma il punto è sempre il solito: da uno che ha scritto The boy with the thorn in his side e How soon is now?, è lecito attendersi qualcosina di più.

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