Liars – Mess

Per una band dedita ad una specie di garage punk (metteteci in mezzo pure un “post”, non guasta) fisico e spettrale al tempo stesso, misurarsi con la musica elettronica era solo una questione di tempo. E infatti i Liars, nel 2012, cedettero alla tentazione per sfornare WIXIW, che è probabilmente il loro disco peggiore, la loro versione dell’IDM filtrata attraverso una sensibilità alla Thom Yorke. A distanza di due anni, la formazione americana sembra averci preso gusto, dal momento che con Mess non solo ridà corrente ai sintetizzatori, ma addirittura la butta ancor più esplicitamente sulla dance, con un impianto a base di beat colossali e furore industriale (i cari Nine Inch Nails) che anima il disco soprattutto nella prima parte.

Il risultato anche stavolta è discutibile, sebbene forse più accattivante. Mask maker, Vox tuned D.E.D., I’m no gold e Pro anti anti ripartono da Brats, uno dei brani di WIXIW: suoni elettronici sporchi, tessiture minimaliste, ritmiche EDM e il solito cantato tenebroso, vampiresco, di Angus Andrew, che instilla robuste dosi di perversione (i “disumani” comandi sadisti di Mask maker). L’effetto è assicurato: le tracce hanno quel tocco di violenza che gli conferisce un fascino nervoso, le ammantano di una luce cupa, furibonda (soprattutto in Pro anti anti), che, tuttavia, ascolto dopo ascolto si conferma soprattutto come una qualità epidermica, legata cioè al puro impatto.

Insomma, di sostanza ce n’è meno di quanto sembri. Mess on a mission è un’altra eruzione techno, una specie di filastrocca alienata che, tuttavia, colpisce con trucchi prevedibili, facili. Insomma, dai Liars un pezzo del genere te lo aspetti, anche se poi non puoi fare a meno di applaudire. Mess on a mission, tra l’altro, è anche il brano che segna la chiusura del “lato A” dell’album, in favore di una seconda parte più incline all’introversione, all’esplorazione di uno spettro elettronico oscuro. Ci pensa lo strumentale Darkslide ad inaugurarla, subito doppiato dai tribalismi ipnotici di Boyzone, anche questa dal fascino irresistibile ma non propriamente sorprendente.

Entrambe, assieme ai nove minuti di Perpetual village, dagli aromi orientaleggianti, e alla serpeggiante Left speaker blown, dimostrano come, in realtà, quello dei Liars sia un cambio d’abito che ha intaccato di poco la sostanza, nel senso che dentro ci trovi gli stessi ingredienti, le stesse atmosfere di dischi come They were wrong so we drowned, solo inghiottiti e rimasticati dalla fascinazione per il digitale.  

I Liars, insomma, sotto sotto sono rimasti gli stessi, e forse il punto è proprio quello. La loro musica non stupisce più come un tempo. Un po’ come certi vecchi horror dell’infanzia: li riguardi a distanza di anni, e pensi “dio, che gran film”. La paura, però, è svanita…

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