Beck – Morning phase

Sei anni di silenzio, nel mondo del pop e soprattutto oggi, sono un’eternità. Ma se anche l’universo muove a velocità doppia rispetto a due-tre decenni fa, e le mode vengono e bruciano con rapidità impressionante, lui, Beck, il “Dylan della generazione X”, uno che avanti lo è (stato) sempre, stavolta se ne frega. La parola d’ordine per questo nuovo album, Morning phase, è “lentezza”. Le dodici tracce della scaletta pulsano a 60 bpm in media, un battito al minuto.

Siamo a un passo dalla brachicardia, insomma, e lontano dai ritmi scattanti delle hit radiofoniche. Ma il punto è questo: Beck non ne ha bisogno, non deve dimostrare più niente a nessuno. Ecco perché ha scelto di registrare il disco a Nashville con molti di quei musicisti con cui fece Sea change, l’album acustico del 2002, a dire il vero non uno dei suoi più riusciti. Il fatto è che dal menestrello di Los Angeles ci si aspettano sempre la progressione d’accordi strampalata, l’arrangiamento variopinto, la melodia fuori di testa. E questo anche perché quando indossa i panni del songwriter malinconico, in punta di plettro, Beck finisce sempre con il confondere il dolce e un po’ spettrale languore che lo contraddistingue con l’intensità della scrittura, commettendo un errore.

Così, come Sea change funzionava a corrente alternata (Lost cause su tutte), anche Morning phase non sempre centra il bersaglio, seppure se nel complesso se la cavi meglio. Dalla sua, l’album ha due cose: un sound (in prevalenza acustico) curatissimo, che è una meraviglia ascoltare con l’impianto hi-fi, e appunto il giusto tono trasognato, quello che ti aspetteresti da un discepolo di Neil Young, Byrds e Crosby, Still & Nash.

Poi ci sono le melodie: Morning (che apre di fatto il disco, visto che Cycle è semplicemente un bozzetto orchestrale), Blue moon («I’m so tired of being alone» è l’incipit), Unforgiven e Waking light (un po’ radioheaddiana) sono probabilmente le migliori dell’album. Tuttavia, definirle “fresche” sarebbe eccessivo: diciamole piuttosto efficaci nel trasmettere quel senso di luminosità pre-giorno intorno a cui ruota tutto l’LP. Quella di cui si caricano queste tracce è una suggestione sottilmente inquieta, psichedelica, anche per merito dei generosi arrangiamenti orchestrali. I quali, curati dal padre di Beck, David Campbell, diventano però eccessivi in Wave.

Tutto il resto è riuscito, niente da dire. Turn away sfrutta alla perfezione le tipiche armonie vocali beckiane, Blackbird chain è condita da un elegante solo di pianoforte, Country down ha il giusto incedere pigro da cowboy (e un bell’intervento di armonica). Tutto giusto, tutto esattamente dove deve essere. Manca l’imprevedibilità, ma sotto il profilo della scrittura, dunque in senso tecnico, l’alba di Morning phase è di quelle da incorniciare. Chissà, magari per la rivoluzione basterà attendere altri sei anni…

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