MGMT – MGMT

Mettiamola così: agli MGMT il successo non deve piacere poi molto. Perché altrimenti, dopo Oracular spectacular e Congratuations, non se ne sarebbero usciti con un disco come questo terzo ed omonimo. Un album bizzarro, difficilmente avvicinabile non perché formalmente avanguardistico, ma perché involuto, apparentemente persino snob, e dunque potenzialmente irritante. Le melodie hanno ascendenze per lo più “brit” ma sono immerse in un bagno acido e nebuloso come i Flaming Lips, o narcotico come i Mercury Rev (guarda caso le band con cui ha lavorato il produttore Dave Fridmann). Tutto MGMT volteggia in un mondo di sogno e colori sgranati, e il desiderio del duo australiano di esplorare nuovi territori sonori è sempre percorso dalla sensazione che, sotto sotto, Benjamin Goldwasser e Andrew VanWyngarden ci stiano prendendo in giro. Poco importa, però, perché il risultato è comunque intrigante.

Alien days si distende pigra e fatata, come emergesse da un sogno, e conserva comunque un appeal pop che farebbe gola a tanti là fuori (i Tame Impala, per esempio, che ogni tanto si perdono per strada). La cantilena Your life is a lie muove in direzione Pink Floyd (versante Syd Barrett), mentre, per rimanere in tema, Introspection (venata da un flauto impazzito) guarda ai Kinks. Si tratta di brani che non hanno paura di corrodere la tradizionale struttura pop con il morso granuloso di un’elettronica moderna: la frenesia ritmica di The astro-mancy, ad esempio, chiama in causa Aphex Twin (o, se preferite, i Radiohead di Kid A), mentre A good sadness è un esperimento, una Tomorrow never knows (Beatles) squassata da beat danzabili e sognanti.

A ben vedere, l’elemento ritmico è centrale in MGMT, il che è paradossale per disco così ritroso alle architetture standard: Cool song no. 2 è segnata da un tam tam tribale, con un pianoforte seviziato, sopra le righe, ad accrescere il senso di inquietudine. Anche nella più sospesa I love you too, death, in cui sembra prevalere l’interesse per la fluttuazione dei synth, poco a poco il lavoro dei loop ritmici emerge, e riporta tutto ad una dimensione ossessiva, straniante, ma non per questo meno malinconica.

MGMT è un disco capace di muoversi in maniera intelligente sul filo del revival: immerso nella follia di Barrett, cerca la propria strada senza adagiarsi pedissequamente sulle rotte tracciate dagli psichedelici degli anni ’60, ma sforzandosi di dare un senso ad anni di sperimentazione pop-elettronica. «The important is to be free», cantano gli MGMT in Plenty of girls in the sea. Anche a costo di sembrare antipatici.

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