Luciano Bianciardi – La vita agra

Luciano Bianciardi è uno che del “boom” non ha visto i luccichii consumistici o le “magnifiche sorti e progressive”, ma che ne ha scorto le piaghe purulente, le conseguenze che ancora oggi ci portiamo appresso: solitudine, alienazione, un devastante conformismo. La vita agra (1962) è il suo romanzo più celebre, ed anche il migliore, un ritratto vivo e controcorrente dell’Italia di quegli anni. Un’opera anche autobiografica, perché Bianciardi i disastri esistenziali che racconta li ha vissuti sulla sua pelle, fino all’ultimo: emigrato nel 1954 dalla Toscana a Milano per lavorare in Feltrinelli (da cui fu poi licenziato per scarsa produttività), Bianciardi non si “rassegnò” forse mai a quella città e ai suoi ritmi, e vi morì alcolizzato nel 1971, a soli 49 anni.

Probabilmente, quando Bianciardi si era trasferito per costituire il primo nucleo della nascente Feltrinelli, le sue ambizioni erano rivoluzionarie esattamente come quelle del protagonista ed io narrante de La vita agra. Rimasto scosso dalla morte di 43 minatori (fatto realmente accaduto, proprio nel 1954, a Ribolla), l’uomo giunge nel capoluogo lombardo con l’intento preciso di far saltare in aria la sede dell’azienda mineraria (la Montecatini), arroccata in un «torracchione di vetro e cemento» che assurge a simbolo del Potere. Qualcosa va storto, però: la nebbia di Milano a poco a poco diluisce i propositi insurrezionalisti, li sfianca. Il protagonista, perso il posto di lavoro nella casa editrice in cui lavora, si trasferisce assieme alla donna che ama, Anna, in periferia, una landa squallida, popolata di «larve» che forse non sono più neanche uomini ma fantasmi, e in cui l’unica attrattiva è il supermercato (il «bottegone»). Lì, soccombe definitivamente al grigiore piccolo-borghese.

Con una lingua vivissima, fatta di italiano, dialetto, neologismi ed espressioni gergali, Biancardi racconta insomma il «fetore» che promana dal “boom”, la solitudine dei rapporti umani, la trasformazione dei cittadini in consumatori, il sesso svuotato di piacere, l’assenza di solidarietà e coscienza di classe, persino tra gli operai. Non c’è speranza, per il protagonista, di attuare la sua rivoluzione: La vita agra è il racconto di una lenta ma implacabile deriva, che rende la disperazione impotente, incapace di diventare rivolta. La nebbia di Milano, quella «flatulenza di uomini, di motori, di camini», quel «fetore di ascelle deodorate, di sorche sfitte, di bischeri disoccupati», alla fine ha vinto lei. I risultati sono sotto gli occhi di tutti.

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