Beach Fossils – Clash the truth

«Non si esce vivi dagli anni ‘80», cantavano gli Afterhours tempo fa. E la citazione suona decisamente profetica se pensiamo all’evo musicale attuale, intrappolato (ancora per poco: ci sono tutti i segni di un’imminente ritorno ai ’90) nello spettro sonoro di quel decennio, conteso tra fuochi pirotecnici elettronici (il new-pop) ed intimismo indie/twee. E a quest’ultima branca fa riferimento Beach Fossils, progetto di Dustin Payseur, il quale, dopo l’abbandono dei compagni Zachary Cole (DIIV) e John Penã (Heavenly Beat), si è trovato a ripartire dal batterista Tommy Gardner, poi affiancato da Tommy Davidson e Jack Doyle Smith. In questo secondo LP (il primo e omonimo è del 2010), le quattordici tracce si muovono al solito in un mare di spasmi ritmici post-punk, chitarre jangly, riverberi, brume un po’ shoegaze e, soprattutto, tanta malinconia. E qui sta il problema.

Clash the truth è un film già visto. Payseur ha dalla sua una penna agile ma che, sebbene capace di tener desta l’attenzione, risolve tutto in un nugolo di nostalgia autocompiaciuta e mimetica – del resto già insita nell’immagine dei fossili sull’arenile evocata dal moniker. Nella title-track, il songwriter impila a mò di “stream of conciousness” parole come “dream”, “rebel”, “youth”, “free”, “life”, “clash” e “truth”, ma, ovviamente, sta parlando d’altro: prefigura la fastidiosa rassegnazione che permea tutto il disco. Invece di scuotersi dall’apatia e guardare aventi, Payseur chiede conforto ai fantasmi di Smiths (Careless), My Bloody Valentine (In vertigo, featuring di Kazu Machino dei Blonde Redead) e, ovviamente, dei Joy Division (Burn you down è la versione accelerata di Atmosphere). Ne viene fuori non un’esortazione alle barricate, come il titolo potrebbe far pensare, ma un compendio di amarezza e disillusione. La lotta per la verità, contro la menzogna, che sembra essere il sottotesto delle liriche, si scontra alla fine con la mancanza di speranza. Caustic cross (una vertigine di synth cupi, beat marziali e chitarre in picking ipnotici) si chiude col verso «Beating my head on my hands», ripetuto più volte: è, questa, l’immagine che meglio riassume lo spirito dell’album.

Nel suo valore documentale-analitico, Clash the truth è sicuramente un disco notevole, perché in pochi sanno incarnare con musica e parole lo smarrimento esistenziale (e sociale) come Payseur (ascoltate, ad esempio, la delicata Taking off). La costruzione, però, si sgretola di fronte all’evidenza di una scrittura che non cerca neppure l’innovazione e si chiude nel proprio cantuccio irrimediabilmente traumatizzato e depresso. Ma Payseur può fare ben altro – noi avremmo bisogno di ben altro…

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