Tobe Hooper – Non aprite quella porta

I ’70 furono gli anni dell’utopia negativa, del rovescio dei valori e dei sogni di quel ’68 che, partito con premesse di paradisi di pace e fratellanza, si dissolse ben presto nell’opportunismo del riflusso e, più tardi, dello yuppismo reaganiano. Il cinema rispose (ovviamente) all’appello, lavorando ad esempio proprio su quei corpi celebrati dalla stagione del “peace and love” come tempio di un amore puro e incontaminato. È, questo, il periodo fertile del primo gore, del proto-slasher (Halloween), di un cinema mutante e virale (David Cronenberg) che incista nelle pieghe di una carne malata, addirittura putrescente (gli zombie di George Romero), la controrivoluzione in atto.

Non aprite quella porta è un buon esempio di questo “revisionismo”. Titolato nell’originale The Texas chainsaw massacre (“il massacro della motosega del Texas”, allusione ad un fasullo fatto di cronaca), il film di Tobe Hooper è una rivisitazione dei luoghi caratteristici dell’immaginario americano (non da ultimo il mito della frontiera) condotta con intento cinicamente beffardo. Leatherface, il proverbiale maniaco armato della motosega in questione, riprende nel nome il Leatherstocking (“calza di cuoio”) di James Fenimore Cooper. La sua più che disfunzionale famiglia (sono cannibali e necrofili) richiama invece i Canfield del capolavoro di Buster Keaton, Accidenti che ospitalità! (1923). I buoni, invece, i poveri Kirk, Pam, Jerry, Franklin e Sally (l’unica sopravvissuta), sono cinque studenti in viaggio su un furgocino, portatori di quell’armonia e quel sentire hippie che, puntualmente, l’incontro con i burini sudisti manderà irrimediabilmente in frantumi.

Hooper, insomma, fa del cinema ghignante, crudele e sadico, di un grottesco rivoltante – non tanto per quello che mostra, ma per la portata dell’orrore inscenato, per la sua “totalità”. Prototipo del miglior cinema d’exploitation, Non aprite quella porta è un meccanismo implacabile e con i nervi perennemente a fior di pelle, un’esplorazione “on the road” della provincia americana, ritratta come un un gigantesco Cottolengo, un antro oscuro di barbarie, necrofilia e cannibalismo. Parimenti la famiglia, istituzione sacra per eccellenza, il cui “ideale” è rappresentato proprio dai Sawyer, con tanto di figli dementi-mostruosi e nonno imbalsamato. Il tutto condensato in 83 minuti asciutti, sintetici, lineari, contraddistinti da un crescendo che culmina in un finale delirante.

Per paradosso, malgrado la sua portata eversiva, Non aprite quella porta si trasformerà presto in un franchising di grande successo. Inutile dire che nessuno dei sequel (neppure la Parte II, diretta sempre da Hooper) ha sinora eguagliato il capostipite quanto a frenesia, gusto depravato e impatto socio-culturale. Cult assoluto.

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